L'Editoriale

La festa fuori luogo sui conti

Chi si accontenta gode. Ma con i dati tirati fuori ieri dall’Istat si può godere solo a metà. Il 2017 si è chiuso con una crescita dell’1,5% e a gennaio scorso si sono creati 25mila posti in più. Debito e deficit pubblici scendono e per effetto del Pil positivo cala leggermente anche la pressione fiscale. Naturale che Gentiloni e Padoan festeggino, ma se grattiamo appena un po’ sotto la vernice ecco che il capolavoro si rivela una crosta. I nostri competitor europei hanno registrato l’anno scorso una crescita in qualche caso doppia rispetto a noi e comunque l’Italia sta in coda ai Paesi Ue, sotto la media generale. A gennaio è vero che risulta qualche posto in più, ma si tratta prevalentemente di contratti a termine e in ogni caso è tornato a salire il tasso di disoccupazione, poco sopra l’11%, cioè quasi doppio rispetto alla Germania. Possiamo consolarci con le tasse che scendono? Ma certamente no, visto che la riduzione del carico fiscale è microscopica e al netto del valore delle statistiche chi crea reddito in questo Paese paga molto di più rispetto a quanto avviene nel resto del nostro continente. Qui non si tratta di voler vedere il bicchiere pieno o vuoto, soprattutto a due giorni dal voto, ma guardando i numeri con oggettiva imparzialità non si capisce proprio cosa festeggino il premier, il suo ministro del Tesoro e soprattutto chi si ritiene senza poterlo dire pubblicamente il loro vero dante causa: Matteo Renzi. Le cose potevano andare peggio? Certo. Dovevano andare meglio? Sicuro.

Mentre è assolutamente vietata la pubblicazione dei sondaggi, c’è infatti sotto gli occhi di tutti un Exit Pil che il Governo però non ci legge come dovrebbe. Se il segno più davanti al Pil è certamente un dato positivo, quello che andrebbe detto è che a spingere la carretta non siamo stati noi ma l’Europa e i mercati. Con un effetto che sembra promuoverci, e invece ci punisce. La Banca centrale europea che ha tenuto i tassi al minimo storico e ha inondato il sistema finanziario di liquidità monetaria, ci ha fatto sicuramente risparmiare sugli interessi dovuti per il nostro imponente debito pubblico. Esattamente come noi, anche gli altri Paesi Ue però sono stati aiutati da questa strategia fortemente voluta da Draghi in un momento di incertezza sulla tenuta stessa della moneta comune, dopo la grande crisi del debito in Grecia. Un po’ tutti gli Stati si sono quindi tirati su le maniche e si sono dati da fare, con riforme e azioni che hanno spinto il loro Pil ben più in alto di quanto avvenuto in Italia. Il motivo di tutto questo è semplice: qui le riforme le abbiamo ampiamente annunciate, ma poi quando le abbiamo fatte ci siamo fermati ai titoli sontuosi – pensiamo a quanto suona bene Jobs Act – senza metterci dentro le trasformazioni radicali che la situazione d’emergenza imponeva. Così già oggi vediamo risalire la disoccupazione a gennaio, e quei pochi nuovi assunti che ci stanno sono quasi tutti a termine. Vabbè, si dirà che sono cresciuti gli altri e siamo cresciuti anche noi, in fin dei conti il ben comune è un grande gaudio. E invece è qui che casca l’asino. I nostri competitor che crescono si definiscono appunto competitor perché ci fanno concorrenza e in fin dei conti li dobbiamo affrontare quando c’è da stare sui mercati. Un tema, questo, che per un Paese tradizionalmente votato al manifatturiero è fondamentale. E non finisce qui.

Sin dall’inizio dell’attuale stagione di accomodamento monetario e di tregua nel rigore di Bruxelles sui conti pubblici, si era stabilito che questa eccezionale condizione di flessibilità non sarebbe durata in eterno. Dunque non solo ci siamo mossi poco quando addirittura non abbiamo frenato la crescita che ci veniva imposta dall’esterno, ma abbiamo pure buttato via tempo prezioso. Uno spreco di cui non ci rammaricheremo mai abbastanza quando i tassi ricominceranno a crescere e finirà il quantitative easing, cioè in ultima analisi il fiume di miliardi che la Banca centrale europea sta stampando da gennaio del 2015. Anni in cui dovevamo mettere ben altra legna in cascina. Tutti questi aspetti erano molto chiari ai mercati finanziari, che non a caso avevano guardato con favore l’emergere sulla scena politica italiana di un leader riformatore come Matteo Renzi. Quella promessa di riforme però si è rivelata velleitaria e adesso non è un caso che gli stessi mercati tifino invece per la stabilità delle Larghe intese. Il sistema perfetto per vederci pressoché immobili, incapaci di rialzare la testa ma capaci di fare giusto quello che sta più a cuore ai nostri creditori: pagargli gli interessi sul debito pubblico.

Gli ultimi dati forniti dall’Istat prima delle elezioni non ci dicono perciò nulla che meriti di essere festeggiato, come invece hanno fatto ieri a suon di Tweet e dichiarazioni alla stampa Gentiloni, Padoan e Renzi. Gli ultimi cinque anni di governo a trazione Pd hanno evitato scenari che potevano essere peggiori quanto è vero che al peggio non c’è fine, ma se guardiamo alle occasioni mancate, qui il bilancio non è affatto positivo.