Nel nuovo terremoto giudiziario tra Roma e Messina, come nella vicenda Consip, non si capisce da che parte stanno anche i piani più alti dello Stato. Siamo diventati una Repubblica fondata sull’intrigo? A quanto pare sì. L’inchiesta che scoperchia un sistema di potere capace di pilotare affari per centinaia di milioni, provando persino ad aggiustare processi delicatissimi come quello che coinvolge il numero uno dell’Eni per le presunte tangenti in Nigeria e Algeria, vede coinvolti magistrati, baroni dell’Università, avvocati e giornalisti. Per Consip tremano un ministro, ufficiali di prima linea delle forze dell’ordine, manager pubblici, fino a lambire la famiglia di Renzi. E non finisce qui.
Da questa ragnatela non sfugge niente, se pensiamo che persino dai riservatissimi servizi segreti è filtrato in quali ristoranti vanno a pranzo i loro informatori. C’è uno Stato, insomma, che fa la guerra a se stesso, calpestando ogni regola, tradendo il giuramento di lealtà e fedeltà, spesso per corruzione ma anche per carriere e sete di potere. Un’opacità che presenta un conto salatissimo: la rottura della fiducia nelle istituzioni, comprese magistratura e forze dell’ordine che con poche eccezioni erano rimaste immuni dall’inquinamento della politica. A furia di vedere toghe sporche, mele marce, penne vendute, cosa resta nella mente dei cittadini? La risposta – nulla di buono – è scontata ma necessaria, perché quello che resta dello Stato di diritto si dia una svegliata. A questo sfascio non abbiamo gli anticorpi necessari e senza regole specifiche finanche il nostro essere comunità è destinato a una penosa decomposizione.
Riforme necessarissime – Di ricette per moralizzare non ce ne sono tante. La strada del “tutti in galera” è tanto facile quanto demagogica. In un Paese storicamente diviso tra Guelfi e Ghibellini, Orazi e Curiazzi, fascisti e comunisti, continuare a dividere in buoni e cattivi alla fine alimenta la diffidenza anche per lo Spirito Santo. Le élite della Repubblica sanno perfettamente di avere la coscienza sporca per aver creato un clima da scontro permanente, non solo politico e ideologico, dentro il quale l’immobilismo ha trovato un habitat ideale. La politica non ha fatto le riforme necessarie, ma anche gli organi autonomi e spesso totalmente autoreferenziali dello Stato – dal Consiglio superiore della magistratura alla giustizia amministrativa – si sono cullati sugli allori. A meno di non volersi illudere che la moral suasion del Quirinale da sola possa scuotere qualcosa, è chiaro che questa volta tocca all’opinione pubblica, agli intellettuali, alla cultura, pretendere un clima nuovo, in cui costruire e non distruggere, tornare alla radice del Patto sociale su cui è nata la nostra Costituzione.
Un cancro – Se non la smettiamo con le tifoserie e non cominciamo a gettare ponti tra l’intellighenzia del Paese per ricostruire le fondamenta, il cancro che sta crescendo dentro le nostre istituzioni presto non sarà più operabile neppure con il bisturi delle Procure. Un epilogo che i manettari di professione – e ce ne sono nei partiti, nei giornali, anche nella magistratura – non possono non comprendere, anche se i segnali che arrivano sono sistematicamente di chiusura. A gesti minimi, come la scarcerazione di un Dell’Utri morente, si preferisce continuare ad avvelenare i pozzi, senza considerare che così non resta niente da bere per il marcio e per il buono. Tutti seppelliti in uno Stato che di questo passo non ha davanti a se orizzonti meravigliosi.