“Ora lo sai che ti dice: ‘L’Ilva a Taranto te la intesto a te’…”. A parlare è Francesco Talarico, uno dei membri del direttorio della cosca Farao-Mariconcola e responsabile del locale di Casabona, in provincia di Crotone, arrestato due giorni fa dopo la maxi-operazione “Stige” della procura antimafia di Catanzaro, guidata da Nicola Gratteri, che ha portato all’arresto di 169 soggetti tra Italia e Germania. Saranno le indagini ad accertare quanto di vero ci sia nella frase di Talarico intercettata dagli investigatori, ma certo è che per la prima volta spuntano nelle carte di un’inchiesta antimafia le mire della ‘ndrangheta sullo stabilimento siderurgico. Mire piuttosto concrete e ben strutturate, perché se è vero che la dichiarazione di Talarico (che in quel frangente parlava con un soggetto non identificato, riferendosi al padre, Carlo Mario Talarico) potrebbe sembrare iperbolica, è altrettanto vero che riferimenti all’Ilva spuntano anche altrove nelle 1140 pagine di ordinanza di custodia cautelare. Tanto che, precisano gli stessi inquirenti, questa stessa conversazione assume “un rilievo maggiore, in virtù di successive captazioni”. Quel che emerge, in altre parole, è la “concreta esistenza di lavori di smaltimento, gestiti presso lo stabilimento tarantino, da parte di imprese controllate dal sodalizio criminale”.
Il meccanismo – Insomma, è più che fondato il dubbio che la famiglia Farao-Marincola avesse un concreto business con lo stabilimento tarantino. È ancora Talarico a parlare, questa volta con un altro boss, Giovanni Trapasso. I due discutono dell’imprenditore Giuseppe Clarà e di un appalto al quale quest’ultimo aveva partecipato. Nel colloquiare, Talarico fa a Trapasso “un importante rivelazione”: tramite una delle imprese dello stesso Clarà, il sodalizio sarebbe riuscito ad accaparrarsi alcuni lavori di smaltimento di scarti industriali e rifiuti tossici proveniente proprio dall’Ilva di Taranto, “avendo la possibilità – scrivono gli inquirenti – di effettuare circa dieci o dodici viaggi giornalieri, con il materiale che sarebbe stato poi scaricato in territorio calabrese”. Un business importante, tanto che Talarico si sarebbe impegnato anche a far incontrare lo stesso Clarà con Giuseppe Sestito, detto “Pino”, uno dei plenipotenziari della cosca che, dal 2006 al 2016 ha sempre deciso chi doveva guidare il comune di Cirò Marina (dove non a caso gli arresti hanno decimato l’amministrazione comunale). Insomma, prima di procedere con il trasporto dei rifiuti, Clarà avrebbe chiesto il permesso al capoclan. E solo dopo sarebbe partito: “Noi abbiamo preso, stanno facendo lo smaltimento dell’Ilva […] A Taranto e abbiamo preso tutto il trasporto del limo, del materiale […] con i camion e deve venire qua questo materiale”.
Minacce e obbedienza – Ed è anche per questo che, come emerge dalle carte, Talarico avrebbe avuto l’esigenza di accreditare la figura di Clarà, un imprenditore che in passato aveva provato a ribellarsi alla ‘ndrangheta ma, dopo una serie di atti intimidatori (l’incendio di alcuni camion), si era piegato ai diktat della criminalità. “Tre o quattro anni fa tutti quei camion bruciati – dice non a caso Trapasso rispondendo a Talarico – quando poi le persone le portiamo con le spalle al muro, no? O da una parte o dall’altra devono rompere”. E il boss di Casabona concorda, dato che, dopo le intimidazioni, Clarà “dov’è andato in tutti questi paesi, quello che gli ho detto ha fatto, non ha mai sgarrato una volta …”. Nemmeno, da quel che emerge, a Taranto.
Tw: @CarmineGazzanni