di Lapo Mazzei
La Nuova Fiera di Roma, sede scelta dal Pd per l’assemblea nazionale, per chi non conosce bene la Capitale, è un nome altisonante, quasi aulico. Nella realtà è una bella cattedrale nel deserto, piantata nel mezzo di quella terra di nessuno, fra l’Urbe e Fiumicino, dove si va giocando la partita del cemento fra i palazzinari romani. E lì che il piano regolatore varato del Campidoglio, era Veltroni, ha deciso di concentrare il mattoni e calcestruzzo. Ma non è questo il punto. Il dato che sconcerta è che quella cattedrale nel deserto, scelta dal Pd per l’assemblea nazionale, è la metafora stessa del Partito democratico. La distanza fra il vertice e la base è abissale. E per meglio comprendere questo particolare non conta esser qui, nell’Auditorium della nuova Fiera di Roma dove non si celebra un’Epifania ( chiaro il gioco di parole) ma un funerale, bensì davanti alla televisione. Nell’attesa dell’inizio dell’assemblea YouDem, la Web tv del Partito democratico, ha mandato in onda una lunga serie di interviste realizzate fra i militanti, fra i segretari di sezione, fra gli iscritti. Ecco, se i vertici democratici, da Pier Luigi Bersani a Matteo Renzi, da Rosy Bindi a Dario Franceschini, avessero seguito quei video, avrebbero mollato tutto, chiuso l’assemblea e mandato tutti a casa. La gente, quella alla quale la sinistra ha fatto finta di rivolgersi in tutti questi anni considerandola un’astrazione e non carne e sangue, parla una lingua schietta, diretta, senza retorica. Che vuole una sinistra di sinistra, che non capisce questi reiterati appelli “all’unità” e “all’unanimità” emersi dagli interventi dei delegati, alle larghe intese e al dialogo con l’avversario, che non accetta più nemmeno l’opportunismo – ormai evidente e tratti fastidioso per quanto dettato solo dall’ego personale – di Matteo Renzi che propone un anti-berlusconismo rivisto e corretto, solo per stare in prima fila.
Facile criticare senza assumersi nessuna responsabilità, soprattutto da chi voleva conquistare i voti del centrodestra per far crescere la sinistra. Ma di tutto questo nella cattedrale nel deserto, quale è la Fiera di Roma, non c’è stato traccia. Sembrava di stare in una moschea, con i fedeli rivolti verso la Mecca. Che poi non sai nemmeno qual è. Perché all’interno del Pd manca il coraggio di essere quel che sono diventati, dei democristiani mascherati da gente di sinistra, senza avere la Dc alla spalle. Perché questo è il punto. L’assemblea democratica ha mostrato un partito senza volto, un uomo invisibile anche a se stesso, con un evidente deficit di futuro e con la storia cancellata. Anzi, smacchiata. Solo qualcuno, per esempio, cita Enrico Berlinguer. Una, forse due volte, ne ricorre il nome. Ma avrebbe dovuto risuonare in tutti gli interventi. Era il 1981 quando l’allora segretario del Pci pronunciò una frase storica: “Quello che mi pare si possa dire in linea generale è che ciò che è avvenuto in Polonia (la presa del potere da parte del generale Jaruzelski ndr) ci induce a considerare che effettivamente la capacità propulsiva di rinnovamento delle società, o almeno di alcune società, che si sono create nell’Est europeo, è venuta esaurendosi. Parlo di una spinta propulsiva che si è manifestata per lunghi periodi, che ha la sua data d’inizio nella rivoluzione socialista d’ottobre, il più grande evento rivoluzionario della nostra epoca, e che ha dato luogo poi a una serie di eventi e di lotte per l’emancipazione nonché a una serie di conquiste”. Ecco, mutando i fattori, si ottiene lo stesso risultato. Con il governo delle larghe intese il Pd ha esaurito la sua spinta propulsiva, ammesso che l’abbia mai avuta. E il ritorno in piazza del Pdl, nel giorno in cui il Pd si ritrova nella cattedrale nel deserto, è la prova che il compromesso storico è avvenuto. Berlusconi si riscopre popolare, cavalca l’onda, quale moderno Masaniello anti-giustizia politicizzata. Epifani si dimostra, invece, aristocraticamente democratico, alla ricerca di un perno sul quale far ruotare l’asse di un Pd senza baricentro in attesa del congresso. Come sarà la sua segreteria lo vedremo nei prossimi giorni.
Di certo sarà meno briosa di quella di Bersani, però avrà il pregio di uscire dalle cattedrali nel deserto per entrare nelle case di coloro che oggi non sono rappresentati. E nemmeno la pattuglia di giovani ribelli di Occupy, che hanno dato vita alla manifestazione fuori dall’assemblea nazionale, dimostra di poter rianimare un partito in coma vegetativo. Certo, hanno dimostrato di avere nelle vene ancora un po’ di sangue, anche se una volta conquistato il palco parlano da dirigenti. Nemmeno questo è il futuro. Infine c’è il capitolo Enrico Letta, attuale presidente del Consiglio. Con tutta onestà da questa assemblea non è uscita un’idea chiara su cosa c’è da fare, se sostenere senza se e senza ma l’esecutivo o se opporre resistenza all’offensiva di Berlusconi. Epifani parla di ritornare in campo il prima possibile, per battere la crisi, senza però indicare quale sia la strada maestra. La sensazione è che questo Pd rischi di diventare una succursale della Cgil, con una scissione inevitabile. Soprattutto da parte di quei tanti Renzi, intrisi di opportunismo e demagogia, che guardano non al governo Letta, ma al dopo Berlusconi. Quella, forse, è l’unica Mecca alla quale si vanno rivolgendo, piantata sull’asse del tribunale di Milano. “Insciallah”. Il riferimento, ovviamente, è al libro di Oriana Fallaci, ambientato ai tempi della guerra civile in Libano negli anni ottanta, durante l’intervento delle forze internazionali, alle quali partecipò anche l’Italia. Proprio attraverso le vicende personali e comuni dei componenti il contingente italiano nei tre mesi che intercorsero tra gli attentati di Beirut e il ritorno in patria della forza italiana, la Fallaci descrive un complesso retroscena che diventa uno spaccato della società italiana e fasi di scontri armati in cui prevalgono sequenze più dinamiche. Il titolo fa riferimento all’invocazione araba “Inshallah” (sia fatta la volontà di Dio).