Bene, ma non benissimo. Da anni e a più riprese si parla dell’esigenza di razionalizzare le società partecipate degli enti pubblici. L’hanno fatto i vari commissari alla spending review che si sono alternati, l’hanno fatto i governi degli ultimi anni. Risultato? Il 30 settembre scorso scadeva per gli enti pubblici il termine per presentare la ricognizione straordinaria di tutte le partecipazioni societarie possedute. Non solo: dovevano presentare i piani di razionalizzazione, i progetti di dismissione e il quadro degli eventuali esuberi di personale. Come spesso accade in Italia, però, è stato tutto rimandato. E dunque quale sia il futuro delle partecipate italiane resta un dato ancora ignoto ai più. Eppure è possibile tracciare un quadro. Perché, mentre al ministero dell’Economia, i tecnici e i dirigenti di Pier Carlo Padoan lavorano indefessamente, a pronunciarsi su quanto fatto sino ad ora è stata la Corte dei conti con un lungo referto, di oltre 380 pagine, proprio su “Gli organismi partecipati degli enti territoriali”. Ma a questo punto entriamo nel dettaglio del nostro discorso. Una razionalizzazione di fatto è stata approntata. Su un numero di enti adempienti piuttosto elevata (oltre l’80%), emerge tra Comuni, Regioni, Province e Città metropolitane, un totale di 7.315 organismi, di cui 5.675 in attività, 278 cessati, 258 inattivi, 229 soggetti a procedura concorsuale e 875 in liquidazione volontaria. Un taglio non male considerando che l’ultimo dato disponibile (2011) parlava di oltre 10mila partecipate. Certo, resta un dato provvisorio siccome non tutti hanno fatto i “compiti a casa”. Se in nove Regioni la percentuale di enti adempienti supera il 90%, è anche vero che in quattro Regioni (Calabria, Lazio, Molise e Sardegna), “la percentuale non ha raggiunto neppure la metà degli enti tenuti all’adempimento”. Per questi, infatti, la rivelazione si ferma intorno al 30%. Insomma, c’è da immaginare che il dato finale sia più alto. E peggio ancora va sul piano di razionalizzazione che pure gli enti avrebbero dovuto presentare. Prendiamo il caso limite della Sardegna: su 349 enti che avrebbero dovuto fornire documentazione, 119 l’hanno fatto tra il 2015 e il 2016 e 20 nel 2017. I restanti 210 enti, invece, sono rimasti con le mani in mano.
Costi su costi – Nonostante il calo di partecipazioni, i magistrati sono convinti si sarebbe potuto fare molto di più, dato che dal lavoro di controllo “emergono numerose contraddizioni”, specie con riguardo alle scelte di dismissione delle società strutturalmente in perdita e di quelle “non indispensabili” al perseguimento delle finalità istituzionali. Senza dimenticare che “il più delle volte” i piani sono risultati carenti e senza la giusta analisi. Anzi, in molti casi ecco la furbata di tanti: pedissequa reiterazione di valutazioni prospettate in occasione di precedenti misure di riordino”. Copia e incolla, insomma. Non è un caso che a volte le perdite delle partecipate continuano a superare l’utile delle stesse. Il caso più eclatante in Sicilia: su 209 organismi osservati, si registra un utile di 23 milioni e perdite per 77. Ancora peggio in Campania (l’utile delle 270 partecipate tocca quota 38 milioni; le perdite 171 milioni) e in Calabria (3 milioni e rotti di utile e 37,7 di perdite). Non male anche il Molise. Utile netto delle 14 partecipate: 1,7 milioni, per una perdita complessiva di 14 milioni di euro. Senza dimenticare, infine, la mole di personale e quanto ci costa. La forbice parla da sola: se in Friuli abbiamo 8.389 dipendenti su 182 organismi (e un’incidenza sul costo della produzione pari al 13%), in Sicilia i dipendenti superano i 21mila per 209 partecipazioni. E un’incidenza sul costo della produzione che tocca quasi il 50%. Esattamente, manco a dirlo, come in Campania e Calabria. E peggio va se consideriamo gli enti a totale partecipazione pubblica: qui l’incidenza supera il 60%. Ma sono i numeri ad essere clamorosi. Prendiamo ancora una volta il caso siciliano: oltre 12mila dipendenti per 57 società. Non male.
Twitter: @CarmineGazzanni