“Il PD che noi vogliamo è il partito dei diritti”. E ancora: “C’è uno spazio nel quale la libertà di ogni persona di compiere le proprie scelte, anche le più intime e fondamentali decisioni della vita, può convivere in armonia con la libertà di ciascuno di vivere liberamente le proprie convinzioni. È in quello spazio che è possibile costruire un Paese avanzato sul tema dei diritti civili, senza alcuna paura di cancellare la nostra identità e le nostre radici culturali”. Se non vi basta: “L’espansione dei diritti delle persone non può essere un’operazione a somma zero, in cui qualcuno vince e qualcuno perde: deve essere al contrario un modo per far crescere l’intero Paese”. Nel documento congressuale col quale l’8 dicembre 2013 sfidò, battendoli, Gianni Cuperlo e Giuseppe Civati, proprio sui diritti civili Matteo Renzi si fece prendere la mano. “Negli ultimi mesi si sono fatti essenziali passi avanti: il Parlamento ha approvato un fondamentale provvedimento di legge volto a contrastare le violenza contro le donne e – scriveva tonitruante l’interessato – si è avviato alla Camera il percorso che condurrà a una legge contro l’omofobia e la transfobia”. Avviato, appunto, ma mai concluso. Già perché il cosiddetto ddl Scalfarotto, arrivato in commissione Giustizia al Senato il 20 settembre 2013 dopo l’ok dell’Aula di Montecitorio, lì è rimasto. E rimarrà.
Alle calende greche – “Da allora la situazione non si è mossa di un millimetro”, spiega a La Notizia Sergio Lo Giudice, senatore del Pd e attivista per i diritti LGBT. “A Palazzo Madama il Pd da solo non ha i numeri per approvarlo”, inoltre “il Centrodestra non lo vuole” e “le stesse associazioni LGBT hanno espresso più d’una perplessità sul testo approvato alla Camera”. Insomma, “non c’è possibilità che il disegno di legge venga riesumato adesso, ormai è materia della prossima legislatura”, conclude amaro Lo Giudice. Ma quello che porta il nome del sottosegretario allo Sviluppo economico non è l’unico provvedimento in tema di diritti civili destinato a finire su un binario morto. La XVII legislatura, per esempio, sembrava essere quella decisiva per approvare una legge che permettesse l’attribuzione al figlio anche del cognome della madre (la proposta fu presentata per la prima volta 40 anni fa). Invece niente. La pdl in materia, prima firmataria la deputata dem Laura Garavini, è infatti spiaggiata anche lei a Palazzo Madama dopo il via libera della Camera arrivato a settembre 2014.
“La verità – dice Garavini – è che è mancata la volontà politica, colpa del conservatorismo e di un certo maschilismo di tanti colleghi senatori che hanno visto in questa legge un attentato alla patria potestà”. Al contrario “approvare questa legge avrebbe permesso all’Italia di essere al passo con gli altri Paesi europei, ma purtroppo così non è stato”. E “nemmeno il ringiovanimento del Parlamento ha aiutato. Un vero peccato”, conclude la deputata del Pd. Nel frattempo, come spesso capita, c’ha pensato la magistratura a fare da supplente. Da gennaio infatti, dopo una sentenza della Corte Costituzionale, è possibile dare ai figli appena nati (o adottati) il doppio cognome, ma non solo quello della madre come la pdl prevedeva. Un compromesso al ribasso.
Bicchiere mezzo vuoto – Certo, non è proprio tutto da buttare, se si considerano l’approvazione della legge sulle unioni civili e quella sul cosiddetto dopo di noi, che introduce il sostegno e l’assistenza alle persone con disabilità grave dopo la morte dei parenti che li accudiscono. Però con biotestamento e Ius soli in bilico (le probabilità di approvarle entrambe sono scarse) e la riforma delle adozioni al palo il bicchiere è mezzo vuoto. “Se la stepchild adoption è materia ormai superata perché la giurisprudenza l’ha già riconosciuta – dice sempre Lo Giudice – una riforma complessiva della legge sulle adozioni è quantomai necessaria per dare gli stessi diritti di cui godono le coppie eterosessuali anche a quelle di fatto e omosessuali. Così come a quelle dello stesso sesso che ricorrono alla fecondazione eterologa”. Ma anche in questo caso se ne riparlerà nella prossima legislatura.
Twitter: @GiorgioVelardi