La linea del Piave tracciata da Matteo Renzi arretra sul Continente, oltre lo Stretto di Messina. La Sicilia, ormai, è persa e l’accerchiamento al segretario del Partito democratico si fa via via più stringente. Non solo sul fronte esterno, con il candidato premier del Movimento 5 Stelle, Luigi Di Maio, che, rifiutando il duello Tv con l’ex sindaco di Firenze, ne ha di fatto disconosciuto il ruolo di competitor. Ma è soprattutto sul piano interno che cresce la minaccia.
Ago della bilancia – Era bastato prendere coscienza del disastro siciliano, annunciato dagli exit poll di domenica sera e certificato dallo spoglio di ieri, per aprire ufficialmente il “processo” al leader dem. Messo in stato d’accusa dalla minoranza del partito. “Anche se Renzi ha i numeri in direzione, è chiaro che da oggi si pone seriamente il problema della premiership”, è l’avvertimento dei dirigenti di riferimento della corrente del ministro della Giustizia, Andrea Orlando. Una linea, però, parzialmente corretta ieri. Perché, se da un lato la segreteria di Renzi non è in discussione, precisano esponenti del Pd vicini al Guardasigilli, è “più chiaro che mai” che, dopo la Sicilia, è indispensabile costruire una larga coalizione di centrosinistra. Con un candidato premier che sia in grado di unire, “cosa che però Renzi finora non ha dimostrato di saper fare”. E “non aiutano”, fanno sapere, atteggiamenti di chi nel Pd (il riferimento è al sottosegretario Davide Faraone), nelle ultime ore si è distinto per gli scomposti attacchi e accuse al presidente del Senato, Piero Grasso, a scrutinio non ancora iniziato. Orlando riconosce a Renzi la leadership del Pd, certificata dalle primarie, resta però la richiesta al segretario di costruire una coalizione “aprendo una discussione ampia e senza precondizioni” a partire dal programma. Ma se per unire l’intero centrosinistra “sarà necessario indicare un altro candidato premier”, avvertono gli orlandiani, “si vedrà alla fine del percorso”. Insomma, una richiesta che ha il tenore dell’ultimo avvertimento. E già il 13 novembre, quando al Nazareno si riunirà la direzione nazionale del Pd, si potranno trarre le prime conclusioni sulle reali intenzioni di Renzi.
Primarie di coalizione – Che, intanto, da un lato ostenta sicurezza, certo di avere i numeri dalla sua parte per respingere un eventuale tentativo di spallata in direzione. Dall’altro invia segnali di distensione alla minoranza del partito. Aprendo ad una coalizione, con relative primarie, allargata ad Mdp. Da cui però non arrivano risposte incoraggianti. “Per un’alleanza con il Pd serve una svolta radicale nei contenuti, Fisco, investimenti, scuola, lavoro. Che non vedo certo con il Pd di Renzi”, avverte il bersaniano Miguel Gotor dalle colonne del Corsera. E senza Mdp le primarie di coalizione si ridurrebbero ad una corsa solitaria di Renzi dall’esito scontato. Ma la vera variabile per gli equilibri interni al Pd può arrivare dai franceschiniani. Per adesso gli ex Dc stanno a guardare. Di certo anche loro non hanno gradito gli attacchi alla seconda carica dello Stato. Ma c’è chi è pronto a giurare che, almeno finché non ci dovesse essere una valida alternativa a Renzi, eviteranno strappi. Una linea che spiegherebbe anche la correzione di rotta degli orlandiani: una spallata al segretario, senza il sostegno della corrente centrista del Pd, sarebbe destinata al fallimento.