Non che a Piero Grasso fossero mancate altre occasioni per pronunciare il gran rifiuto. Una su tutte, l’esame a Palazzo Madama della riforma della Costituzione che portava il nome dell’allora ministra Maria Elena Boschi. I retroscena dell’epoca raccontano di una dura presa di posizione del presidente del Senato contro la stessa maggioranza che lo aveva eletto al prestigioso scranno. “Io non faccio il boia della Carta. Il voto finale sarà il 13 ottobre (2015, ndr) e non l’8”, rispose la seconda carica dello Stato, stando alle ricostruzioni del tempo, ai renziani del Pd, nel corso di una concitata riunione della capigruppo di Palazzo Madama. Il testo venne poi approvato, in prima lettura al Senato, nella data stabilita da Grasso. E definitivamente, tra un colpo di ghigliottina e quattro salti di canguro, nel gennaio 2016.
Ultima chiamata – Resta in ogni caso ancora un mistero quale differenza avrebbe fatto, nella sostanza, votare cinque giorni prima o dopo la più imponente riforma costituzionale nella storia della Repubblica italiana poi spazzata via dal referendum. E’ invece un fatto che, con due anni e mezzo di legislatura ancora di fronte, Grasso non andò oltre le parole. Sebbene, in qualche caso, pronunciate con qualche decibel di troppo. Rimanendo al suo posto nel gruppo del Pd.
Zona Cesarini – Stavolta, invece, il rifiuto è arrivato. Insieme alla decisione di abbandonare il Partito democratico (del quale peraltro non ha mai avuto la tessera, ndr) nel quale, ha spiegato, “non mi riconosco più nel merito e nel metodo”. Una decisione “molto sofferta”, ha assicurato, maturata in seguito all’imposizione della fiducia sul Rosatellum.
Mantenendo il profilo istituzionale che l’alta carica – ottenuta proprio grazie allo stesso Pd – gli assicura, e aspettando, con le mani libere, gli eventi. Insomma, il profilo giusto per guidare, se dalle prossime politiche non arrivasse – come quasi certo – una maggioranza in grado di esprimere un governo, a guidare un governo di salvezza nazionale.
Che fai mi cacci? – C’è chi ha azzardato un parallelismo tra lo strappo di Grasso con Matteo Renzi e il Pd e quello che, nel 2010, portò Gianfranco Fini a pronunciare in pubblico il fatidico “Che fai, mi cacci?” rivolto a Silvio Berlusconi. Ma il paragone non regge. L’allora presidente della Camera ruppe con il Cavaliere nel bel mezzo della legislatura, non in dirittura d’arrivo. Con una decisione che segnò la fine della sua carriera politica. A conti fatti, Fini ebbe molto da perdere e niente da guadagnare. A differenza di Grasso.