La zavorra del debito pubblico, l’Europa che ha fatto il suo gioco e non il nostro, l’insufficiente capacità di chi ci ha governato… di motivi per spiegare il declino della nostra economia ce ne sono a volontà. Quella che era diventata forse immeritatamente la quinta potenza industriale del mondo da tempo boccheggia, con livelli di disoccupazione e di crescita che ci mettono in coda persino a Paesi dove pochi decenni fa si faceva letteralmente la fame. Se cerchiamo però il motivo più motivo degli altri di questo disastro tutti gli indizi ci portano a un unico colpevole: l’assenza di una strategia di politica economica. Non abbiamo mai scelto che cosa essere, puntando per decenni sull’industria, poi un po’ sul turismo, un po’ sul made in Italy, un po’ sulla cultura, un po’ sui servizi, e così via.
Abbiamo disperso immense risorse pubbliche aiutando a pioggia tutti i comparti e alla fine non siamo diventati un’eccellenza in niente. Il nostro turismo è sbaragliato dai competitor, tutti insieme i nostri maggiori musei non contano gli stessi visitatori del solo Louvre, il manifatturiero made in Italy è ricercato ma persino nel lusso sono più i colossi esteri a comprare le nostre griffe che i nostri campioni a fare shopping. Anche in quelle poche occasioni in cui si è tentata una strategia, alla fine abbiamo fatto solo un pastrocchio. Il caso del salvataggio dell’Alitalia pilotato dall’allora governo Berlusconi con i capitani coraggiosi e i soldi della banca di sistema Intesa SanPaolo è forse il più emblematico di tutti.
Bisogna andare indietro nel tempo, agli albori della Prima Repubblica, per trovare una direzione nella crescita del Paese. Allora a dare le carte era una politica più lungimirante, e alle spalle di tutto la Fiat. Non è un caso che nel dopoguerra si siano costruite rapidamente le autostrade, senza le quali a chi avrebbero venduto le loro auto gli Agnelli? La Democrazia cristiana puntò sulle raffinerie, consentendo di devastare alcune tra le più belle spiagge del pianeta. I socialisti si spesero molto per salvare la grande siderurgia, con l’Italsider e un disastro di cui piangiamo ancora le conseguenze. Un po’ tutti i partiti di governo sostennero l’edilizia popolare e di conseguenza quelli che all’epoca si chiamavano palazzinari. Tutte partite sostenute con immensi finanziamenti dello Stato a cui facevano da contraltare altrettanti finanziamenti messi sul piatto a ogni legge finanziaria, assecondando i desiderata della Confindustria messi nero su bianco sulle pagine del Sole 24 Ore. Regalando contributi e sconti fiscali un po’ a tutti, si è gonfiato il debito pubblico senza ottenerne indietro alcun beneficio.
Si batte un colpo – In questo spaccato, che sintetizza brevemente ma ritengo efficacemente la storia economia italiana degli ultimi 60 anni, improvvisamente spunta all’orizzonte un personaggio che qualche idea ce l’ha e soprattutto sa fare rumore per provare a imporla. Il personaggio è Carlo Calenda, oggi appena 43enne, piovuto in politica meno di cinque anni fa, e diventato anche un po’ casualmente ministro dello Sviluppo Economico. Con le poche risorse del suo ministero e l’orizzonte corto di una legislatura vissuta navigando a vista, Calenda avrebbe potuto adagiarsi sui comodi divanetti del palazzone di via Veneto da cui molti suoi predecessori hanno fatto finta di governare il mondo della produzione elargendo contributi a destra e manca. Sarà stata la forza della disperazione per essere rimasto a corto persino di queste regalie, fatto sta che dopo tanto tempo siamo tornati a vedere un ministro in palla su tutte le grandi questioni nazionali. L’ultimo colpo è stato il gran rifiuto a fare da foglia di fico sulla vergogna degli immensi tagli al personale dell’Ilva, decisi da chi ha appena comprato per due soldi il polo siderurgico. Ma di sortite questo ministro ne ha fatte tante, anche con un taglio “politico”, come nel caso della polemica con la sindaca di Roma Virginia Raggi, della quale ha definito “ridicola” una lettera d’intenti sullo sviluppo della Capitale.
Impurdente – Certo non ha mostrato troppa gratitudine al suo mentore Luca Cordero di Montezemolo quando ha definito mal gestita l’Alitalia conquistata da Etihad e di cui proprio l’ex presidente Fiat era in quel momento al vertice. Così come ha sbeffeggiato un Matteo Renzi già con la scheda elettorale in mano dopo il tracollo del referendum del 4 dicembre, dicendo – unico tra i ministri – che votare non era la priorità. Strapazzando il libero mercato, ha fatto da scudo umano a Berlusconi quando la francese Vivendi ha iniziato a scalare Mediaset. Un attivismo mai visto in un ministero dove sembrava farsi a gara per non muoversi. Come l’Italia.