È un po’ anche italiano il premio Nobel per la Pace assegnato all’Ican, la compagnia per il disarmo atomico. Perché tra le tante associazioni membre c’è anche la Rete italiana per il Disarmo: “Noi siamo il partner italiano della Campagna internazionale per l’abolizione delle armi nucleari, e possiamo dire che il Nobel l’abbiamo vinto anche noi”, dice a giusta ragione il coordinatore della Rete, Francesco Vignarca. Anche lui, non a caso, era a New York lo scorso 7 luglio quando Ican ha ottenuto un risultato storico: la stipula di un Trattato internazionale per l’abolizione delle armi nucleari. Il motivo della consegna del meritato premio, appunto.
Strano, però, che nessuno, dal ministero della Difesa passando per Palazzo Chigi, abbia rilasciato (solo Angelino Alfano, in tarda serata) una dichiarazione o abbia pubblicato un tweet complimentandosi con una vittoria in cui c’è anche un po’ d’Italia. Forse la ragione va ritrovata nel fatto che congratularsi avrebbe avuto un retrogusto d’ipocrisia. Il motivo? Presto detto: tra i 122 Stati che hanno votato sì al Trattato presentato nel luglio 2017 alle Nazioni Unite, il nostro Paese non c’è. “Recentemente grazie a diverse mozioni si è discusso del Trattato in Parlamento a Roma, ma tutte le mozioni sono state bocciate dalla maggioranza”, attacca ancora Vignarca. Non solo: incontri con la rappresentanza di Ican in Italia sono stati chiesti sia prima a Matteo Renzi che poi a Paolo Gentiloni. Risultato: nessuno ha mai risposto.
Le cifre – La domanda, allora, diventa inevitabile: perché il no al disarmo nucleare? Innanzitutto per ragioni di convenienza politica, vista la posizione contraria degli Stati Uniti. Ma in secondo luogo anche per i tanti affari che legano il nostro Paese al business atomico. Partiamo da un dato. Secondo l’ultimo report realizzato proprio da Ican, nel 2016 più di 498 miliardi sono stati messi a disposizione, direttamente o indirettamente, delle aziende produttrici di armi atomiche. E chi troviamo tra gli investitori? È ancora il rapporto Ican a dirlo: “a partire da gennaio 2013, 390 tra banche, compagnie di assicurazioni, fondi pensione e asset sono stati responsabili di investimenti nell’industria delle armi nucleari”. Di questi 79 sono in Europa. Le maggiori, manco a dirlo, l’inglese Barclays e le francesi Bnp Paribas e Crédit Agricole. E peraltro questo è un dato “monco”: il totale degli investimenti è molto più alto, considerando poi tutti i programmi pubblici di Stati come la Cina o la Corea del Nord o quelli illeciti, che il rapporto ovviamente non può considerare.
Il commercio italiano – Ma passiamo a questo punto alla nostra Italia e agli affari che la contraddistinguono: tra le aziende interessate al florido business non poteva mancare Leonardo-Finmeccanica. Secondo quanto si legge nel dettagliato report, infatti, l’azienda italiana è “coinvolta nella progettazione, sviluppo e consegna” di due veicoli specifici per il trasporto degli “Icbm”, i missili balistici intercontinentali in forza all’esercito statunitense. Ma non basta. Perché, si legge ancora nel report, Leonardo-Finmeccanica è anche coinvolta nella produzione relativa a missili per l’arsenale francese. Programmi, questi, che durano da anni e che valgono miliardi di dollari. Ma non è finita qui. Perché tra le 390 banche citate nel dossier che investono nella produzione di testate atomiche, spuntano anche istituti di punta del sistema bancario italiano, tra le più importanti, da Carige a Mps passando per Unicredit. Totale degli investimenti: 4 miliardi e 102 milioni di euro che sono andati, dal gennaio 2013, a 27 società produttrici di armi atomiche. Cifre importanti, dunque. Che hanno avuto un peso determinante nel “no” al disarmo nucleare. Almeno per ora. Perché la domanda, adesso, è inevitabile: ora che Ican ha vinto il premio Nobel per la Pace, il Governo potrà declinare ancora una volta un’eventuale richiesta di incontro da parte della rappresentanza italiana? Staremo a vedere.
Tw: @CarmineGazzanni