Se il magistrato Giovanni Melillo non avesse il curriculum che ha, non l’avrebbe scampata al fuoco di sbarramento contro la promozione arrivata ieri alla guida della Procura di Napoli. Con tutti i guai del Paese la vicenda può sembrare una questione minore ma non lo è per niente. Quella che va in scena da mesi tra Csm, Palazzi della politica e interviste velenose sui giornali è infatti una battaglia di potere delicatissima, con in palio almeno due valori fondamentali per qualunque democrazia: l’indipendenza della magistratura dalla politica da una parte, ma anche il sottostare dei giudici più autonomisti (e spesso autoreferenziali) a quel sistema che prefigura un equilibrio tra i poteri (e non una supremazia a prescindere dei giudici buoni sui politici cattivi). A Melillo, opposto a un magistrato dalle doti altrettanto straordinarie, il procuratore di Reggio Calabria, Federico Cafiero de Raho, era contestato l’aver ricoperto incarichi fuori ruolo (è stato fino a pochi mesi fa capo di gabinetto del ministro della Giustizia, Orlando). Una scusa per bloccare un magistrato considerato (decisamente in modo superficiale) legato alla politica; l’ultimo dei capi desiderati per un ufficio che ha in mano inchieste pesanti per molti partiti e per l’ex Presidente del Consiglio, Renzi. Così gli hanno fatto per mesi la guerra, a costo di lasciare tanto a lungo la Procura a un reggente. Fino alla decisione di ieri, che stabilisce come i condizionamenti sulle scelte dei giudici siano sempre inopportuni, compresi quelli di chi in nome dell’autonomia dei magistrati dalla politica vuole approfittarne per condizionarla.
L'Editoriale
L’autonomia delle toghe e la lezione di Melillo
Se Giovanni Melillo non avesse il curriculum che ha, non l’avrebbe scampata al fuoco di sbarramento contro la promozione alla guida della Procura di Napoli