Che il nome fosse un po’ roboante se ne erano resi conto loro stessi. Quando nell’aprile del 2016 venne presentato il fondo Atlante, e annunciata la sua missione salvifica nei confronti del settore bancario italiano, le stesse slides di presentazione avevano messo in guardia: “Atlante sorregge il mondo. Forse un eccesso di overstatement nella scelta del nome”. Va bene il richiamo mitologico, già di per sé pretenzioso. Ma con il senno di poi anche parlare di overstatment, che in inglese vuol dire enfasi, alla luce degli sviluppi attuali sembra un eufemismo. Oggi quei 3,4 miliardi investiti dal fondo Atlante in Popolare di Vicenza (controllata al 99,3%) e in Veneto Banca (97,6%) sono praticamente andati in fumo. Così come in fumo, risalendo la filiera, sono andati gli investimenti di quelle 67 istituzioni finanziarie che soltanto un anno fa hanno deciso (in modo un po’ “spintaneo”) di investire nel veicolo gestito da Quaestio, la sgr guidata dall’economista Alessandro Penati.
I precedenti – Ora, a qualcuno farà anche comodo che tutto ciò che è successo nell’ultimo anno sembri preistoria. Ma così non può essere. Nelle stesse slides di presentazione di Atlante c’era scritto che l’obiettivo finanziario sarebbe dovuto essere “un rendimento del 6% annuo”. In più la durata veniva fissata in 5 anni, rinnovabili di un triennio. E che dire dei suddetti 67 investitori? Oggi si tende un po’ a rimuovere il dato, ma tra questi ci sono fior di società di Stato. C’è la Cassa Depositi e Prestiti che nel fondo Atlante a investito 500 milioni (versati 406) e nel “vicino” Atlante II (quello dedicato all’acquisto dei crediti deteriorati) 250 milioni. Il tutto per un totale di 750 milioni. Ancora, in Atlante ha investito 260 milioni Poste Vita, il ramo assicurativo del colosso postale pubblico. E poi le grandi banche italiane, Intesa e Unicredit, hanno messo sul piatto 840 milioni. Più decine di fondazioni bancarie. Ebbene, quanto valgono oggi questi investimenti? Poco o nulla, come del resto era stato preannunciato nei singoli bilanci di esercizio, in cui sono scattate svalutazioni spesso superiori al 50%. Per questo, con le banche venete oggi sul lastrico, certi toni producono un sorriso amaro. Nel bilancio 2016 della Cdp, per esempio, si legge che “l’investimento in Atlante ha contribuito a stabilizzare il sistema bancario italiano, in un momento di particolare tensione per i mercati finanziari”.
Non finisce qui – Nello stesso documento contabile, a giustificare l’intervento della società controllata dal Tesoro, si legge che “a prescindere dai benefici derivanti dalla possibile rimozione di impatti negativi derivanti da una crisi di sistema a cui Cdp sarebbe potuta essere esposta, le ragioni dell’investimento nel fondo Atlante sono state individuate sia nel potenziale re-rating dei multipli di valutazione delle banche italiane e sia in una ragionevole attesa di miglioramento della performance economico-finanziaria degli assets investiti”. Esattamente quello che non è successo, né per Cdp né per nessuno dei 67 investitori coinvolti. Così oggi il sistema Paese dovrebbe pure ringraziare Intesa Sanpaolo, disposta a papparsi le due banche venete a 1 euro e senza nessun impatto sul patrimonio.
Tw: @SSansonetti