Le prove intermedie sono finite, l’esame definitivo è atteso alle Politiche nel 2018, salvo improbabili accelerazioni sul ritorno alle urne quest’anno. Matteo Renzi è passato da essere ambizioso politico che sognava di “aprire un ciclo” a un leader all’ultima spiaggia. Per usare le metafore calcistiche, tanto care all’ex presidente del Consiglio: è un allenatore a rischio esonero. O comunque un attaccante che non può sbagliare più occasioni. Altrimenti la carriera è destinata a subire un ridimensionamento se non terminare in largo anticipo.
Niente drammi – La batosta ai ballottaggi è stata minimizzata dal segretario del Partito democratico, che non si è materializzato fisicamente a commentare il voto nelle ore in cui il quadro aveva preso forma: si è nascosto dietro i profili social per rivendicare una vittoria numerica – 67 a 59 – in cui però ci sono pesanti battaglie perse. A cominciare dal macigno di Genova (che qualcuno ha paragonato alla perdita di Bologna quando trionfò il Centrodestra di Giorgio Guazzaloca), proseguendo con la caduta di Sesto San Giovanni, storicamente rossa tanto da essere definita “Stalingrado d’Italia”. Renzi non ha nemmeno considerato l’ipotesi di un passo indietro: è fresco di incoronamento alle primarie del Pd e si sente pienamente legittimato a portare avanti il mandato. Per questo vuole giocarsi le carte a disposizione. E sconfessare tutti quelli che – in privato – lo danno per “politicamente finito”.
La linea è stata dettata, dietro suggerimento del leader, da Matteo Ricci: “Si sceglievano i sindaci, c’è una valenza locale in ogni ballottaggio”. Il responsabile Enti locali del partito ha così rilanciato: “A parlar male del proprio segretario si avvantaggia Berlusconi. Abbiamo fatto un Congresso con una scelta chiara, nelle prossime settimane dovremo rafforzare l’idea del partito sul territorio e sui giovani”. Insomma, chi pensa a un Rottamatore in arretramento si sbaglia. Il suo obiettivo è quello di dimostrare che la sua presenza diretta in campo possa portare vantaggi, visto anche che nel Pd non si intravedono profili di leader in grado di batterlo. L’ultimo congresso ha solo confermato questo trend. E per questo il segretario continua ad accarezzare l’idea di elezioni entro l’anno: un’ipotesi considerata folle da gran parte dei dirigenti.
Pressioni – Nonostante l’ostentazione di un parziale ottimismo, però, Renzi dovrà fare i conti con i malumori dei suoi alleati interni. Il problema non è infatti rappresentato dal ministro della Giustizia, Andrea Orlando, che ha subito riaperto il caso, chiedendo una riflessione sulla linea. La polemica, sollevata dalla minoranza, era stata messa in conto dai renziani con qualsiasi risultato: in questo caso si punta a tenere a bada il dissenso interno, magari chiedendo di non esagerare con le polemiche. Il ministro dei Beni culturali, Dario Franceschini, e il presidente dell’assemblea nazionale dem, Matteo Orfini, sono preoccupati dalla piega che ha preso il partito. L’ammissione secca della sconfitta del capogruppo alla Camera, il franceschiniano Ettore Rosato, non è passata inosservata, specie nella tempistica. Le parole sono arrivate, in diretta tv, prima che Largo del Nazareno assumesse una posizione ufficiale. Il segnale è chiaro: le varie anime del partito non voglino chiudere la vicenda con le analisi auto-consolatorie di marca renziana. Il campanello d’allarme sul calo dei consensi è infatti suonato in tutte le elezioni, dalle Regionali del 2015 alle due tornare di Comunali del 2016 e 2017. Senza poi dimenticare i sondaggi che raccontano di un arretramento ai livelli del Pd di Pier Luigi Bersani. Renzi, quindi, non può più sbagliare: perché i primi a mollarlo sarebbero proprio quelli che finora lo hanno sostenuto, vedendolo come una speranza per il Centrosinistra.
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