di Francesco Nardi
In un suo libro Andreotti ha raccontato che si è sentito vecchio per la prima volta quando il Conclave elesse Karol Wojtyla. Era l’ottobre del 1978 e il leader democristiano scoprì di essere meno giovane del Papa: tanto bastò a lui per sentire di essere entrato in una nuova fase della sua vita, ma non fu sufficiente per gli altri che continuarono a chiamarlo il Fanciullo ancora per moltissimi anni. E lo fecero a buon ragione, perché nel 1978 Andreotti non era neanche a metà del suo sconfinato cursus honorum.
I numeri possono dire molto poco di un sette volte presidente del consiglio e diciotto volte ministro, e non è un caso che gli anni più significativi della sua vita siano stati quelli trascorsi “in panchina”, tra il 1976 e il 1979. Tre anni di forzata astinenza che ne prepararono la definitiva e irresistibile ascesa ai vertici dello Stato.
L’uomo degli aneddoti e degli aforismi paga insieme a un pesantissimo e controverso giudizio storico il singolare contrappasso rappresentato da centinaia di ricostruzioni sommarie e semplicistiche e che negli anni ne hanno tradotto un’immagine paradossalmente più complicata dell’uomo che era: allucinato solo dal potere più che dalla sua leggendaria emicrania.
Senza delfini
Fiorito all’ombra di De Gasperi, di cui fu giovanissimo collaboratore, Andreotti non ha saputo – o voluto – fare per altri quello che lo storico leader popolare seppe fare per lui. Di amici ne ha avuti tantissimi, forse troppi, ma tra questi non scelse mai un delfino. Eppure la sua scia riuscì ad alimentare un’infinità di ambizioni, anche se nessuna di queste brillò mai di luce propria. Un’evidenza, tutta politica, e che ha consegnato agli occhi di molti forse il suo più grande limite e che più volte e da più parti gli venne costestato: le cattive amicizie.
La laconica risposta, ciclicicamente offerta, secondo cui la guerra si fa con i soldati che si hanno, riusciva a soddisfare il meccanismo automatico e letale dell’aforisma, ma non giova al giudizio che inevitabilmente ne è rimasto.
A suo modo un grande comunicatore, certo attraverso codici che ora non sarebbero traducibili, e che però ha fallito incredibilmente nel non comunicare sé stesso. Perché per la ribalta di quarantanni di potere non c’è assoluzione processuale che tenga, né attenuante opponibile al fatto che “la gente” s’è convinta di altro. E peggio ancora se ciò di cui si è convinta la gente è pessimo.
L’esercizio storiografico è dunque vano di fronte all’Andreotti percepito dallo stesso popolo che lo ha reso grande e potente. Ma alla lunga la mistificazione ha prevalso aderendo, in buona parte involontariamente, a un preciso disegno che ha narrato la storia di Belzebù cercando di descriverlo come un enorme corpo estraneo, piuttosto che come il più fulgido esempio del sistema.
Un equivoco storico
Nell’equivoco si è perseverato con rarissime eccezioni: nelle decine di libri e nelle megliaia di articoli in cui il personaggio Andreotti è stato passato ai raggi x è rimasta sfocata l’immagine di un’Italia peggiore del mostro che si voleva dipingere. L’errore più grossolano è stato quello di voler sempre chiudere la sua storia con i processi e la relativa decadenza politica.
Il punto esatto in cui si chiude la vicenda politica del Divo è invece più recente e si deve collocare in quei due giorni di braccio di ferro politico che nel recentissimo 2006 andarono in scena al Senato, laddove l’anziano reduce della Dc si trovò, sostenuto dal centrodestra al completo, a contendere la presidenza del Senato a Franco Marini. E lì, in quell’immagine dei leghisti che votano Andreotti, che la parabola autossolutoria del Divo coincide con quella del Paese; a dire che quindici anni erano trascorsi con uno scopo più preciso e sottile della semplice ricerca della verità.
Solo Massimo Franco, nel suo “Andreotti” (Mondadori, 2008) dà dignità storica a quell’evento. Occasione che invece non colse Sorrentino ne il Divo, dove la rappresentazione, cinematograficamente magistrale, si è arenata però in una polemica urlata e che ha lasciato molto di non detto.
La scomparsa del Fanciullo dà ora libero sfogo all’ultima rissa tra assolutori e complottisti. Un confronto inevitabile e che in qualche modo sopravviverà al suo ispiratore, che non a caso disse: “sono postumo di me stesso”.