L’esperimento l’ha fatto qualche giorno fa una tv nazionale, inviando una cronista in giro a chiedere che diamine si festeggiasse il 25 aprile. Le risposte facevano indignare. Quasi nessuno degli intervistati sapeva per quale motivo aveva un giorno di vacanza o da cosa ci avessero liberato. Con il primo maggio va apparentemente meglio. Il tema del lavoro è vissuto (e sofferto) come più attuale rispetto alla libertà e alla democrazia, concetti dati così ingenuamente per acquisiti da illuderci di essere blindati e polverosi. Se però grattiamo appena appena sotto la vernice ecco che neppure sul lavoro c’è quella consapevolezza per la quale da decenni il primo giorno di maggio un po’ di gente va a qualche manifestazione o al concertone di piazza San Giovanni e tutti gli altri se c’è il sole se ne vanno al mare. A chiacchiere il lavoro è un diritto, tanto che ci hanno fondato sopra la Repubblica. Nella realtà è per il 40 per cento dei nostri giovani una chimera e per migliaia di disoccupati cronici, licenziati ed esodati una tragedia.
I nuovi babbei – Non c’è bisogno dei dati per rendersi conto di cosa stiamo parlando. Qui non è come la sicurezza o la ricchezza, dove la situazione reale e quella percepita spesso sono distanti. Il 12 per cento di disoccupazione media nazionale significa che in metà di questo Paese ci sono intere famiglie che non hanno nulla da mangiare. E la povertà si trasforma giorno dopo giorno da materiale in culturale e valoriale. L’inizio della fine di qualunque collettività e dello stesso Patto sociale che sta alle fondamenta della nostra democrazia. Dunque il lavoro è sangue nelle vene di quello che siamo, di quello per cui tanti si sono sacrificati anche offrendo la loro vita e di quello che potremo essere in futuro se non prevarranno l’abbrutimento e i più beceri populismi.
Prendiamocela allora con gli effetti nefasti della globalizzazione, con l’Europa che non ha protetto allo stesso modo le sue imprese a Sud e a Nord del Continente, con la Banca centrale europea che sta riempiendo di miliardi il sistema finanziario e non dice niente se di quei soldi non arriva un euro all’economia reale, ma sul lavoro da anni l’Italia sta facendo solo giganteschi passi indietro. Il Jobs Act che doveva essere uno shock per le aziende si è rivelato appena un pannicello caldo. I sindacati tradizionali sono ormai abbondantemente scoperti, meccanismi di un ingranaggio consociativo e di potere. Lo sfruttamento, la perdita di diritti, il sottomansionamento sono la regola e la stessa cultura del lavoro è fuori moda. Chi si impegna dalla mattina alla sera è uno sfigato, un babbeo in confronto a chi guadagna facile seduto comodo in un ente inutile o stacca immancabilmente alle 17 per andare a farsi l’aperitivo. Un babbeo come non hanno voluto essere i dipendenti dell’Alitalia, disposti a far fallire la compagnia che li ha foraggiati per anni piuttosto che votare sì a un referendum sul quale hanno perso la faccia pure Cgil, Cisl e Uil. L’aria che tira non è più del lavoro come diritto, ma del mantenimento come dovere dello Stato, col reddito di cittadinanza e similari. Perchè lavorare stanca. Sfuttare il prossimo no.