di Sergio Patti
Cosa manca di determinante nel programma del governo Letta? Il welfare. Ed è incredibile che sia così, vista l’importanza che i sistemi di protezione sociale determinano nel contesto attuale, per non parlare dell’area politica e culturale a cui si ispira lo stesso premier. Dall’abolizione dell’Imu al lavoro, nel programma dell’esecutivo – forse troppo vasto? – rimane ai margini quella rete di solidarietà che si definisce terzo settore, ultima speranza per un esercito di cittadini ai margini di una società incapace di tutelarne fin’anche i bisogni primari: dalla salute all’istruzione. Così nel mondo occidentale esplode la richiesta di nuovo welfare e i grandi leader politici – Cameron con la sua Big Society ne ha fatto una bandiera – cavalcano questa materia. Tutto l’opposto di quanto avviene in Italia, dove molte delle strutture impegnate nel sociale sono tassate alla stessa stregua delle società commerciali. Per non parlare della disattenzione cronica verso quei corpi intermedi della società civile che impegnano le loro risorse per dare risposte ai bisogni più urgenti di chi è in difficoltà.
Fondazione Roma in pista
Eppure una risposta – un modello italiano per il welfare – è possibile, come emerso ieri da un importante convegno della Fondazione Roma. Il welfare è stato fin dal 1800, grazie alle lotte del mondo del lavoro, la caratteristica più significati- va dell’Europa rispetto al resto del mondo sviluppato”, ha spiegato il presidente della fondazione di origine bancaria – oggi tra le più performanti finanziariamente e nelle erogazioni per le attività d’istituto – Emmanuele Emanuele. “La crisi economico-finanziaria sta mettendo in evidenza l’inadeguatezza del nostro sistema di sicurezza sociale e le sue carenze strutturali, aggravate dal crescente disimpegno dell’attore pubblico che non appare più in grado di garantire l’accesso a tutti i servizi essenziali, nonché adeguati standard qualitativi”, ha ammesso con desolazione Emanuele. Perchè questo scadimento? Perchè il welfare tradizionale sta cedendo di fronte alle revisioni imposte al bilancio dalle politiche di stabilità europee. Sul welfare locale pesano i tagli delle fonti di finanziamento statale, passate dai 2,1 miliardi del 2008 ai 0,55 miliardi di euro del 2011 (-74%), con il totale azzeramento di alcuni fondi (politiche giovanili, inclusione degli immigrati, pari opportunità, non autosufficienza) e la riduzione del Fondo per le politiche sociali, passato da 930 a 43 milioni di euro. Eppure in questo mondo si continua a tagliare. “Il tema del futuro del welfare non rappresenta un’emergenza solo per l’Italia – ha spiegato il presidente della Fondazione Roma – ma un problema per tutti i Paesi sviluppati: basti pensare che il welfare europeo vale il 58% di quello mondiale, nonostante gli europei siano solo l’8% della popolazione mondiale”. Da noi però le cose vanno persino peggio e “oggi si può dire che il welfare in Italia è finito e bisogna prenderne tristemente atto”.
Risposte inadeguate
Il sistema italiano di protezione sociale appare così “fuori squadra” a causa di una duplice insostenibilità – sociale ed economica – alla quale si è finora cercato di far fronte con provvedimenti di basso profilo, dettati dall’emergenza, privi di un disegno organi- co di fondo, che miri ad una riforma profonda di tutto il sistema. “La crisi, tuttavia ha continuato Emanuele – può rappresentare un’occasione di cambiamento, che il nostro Paese non può mancare di cogliere, rifondando l’intera struttura societaria della comunità nazionale, mettendo in campo le risorse disponibili, una galassia di soggetti diversi che costituisce un patrimonio tutto nazionale ed antico, che trova le sue radici nel basso medioevo, allorché istituzioni ecclesiastiche, corporazioni d’arti e mestieri, confraternite e misericordie operavano insieme per assistere i bisognosi e fare credito, curare i malati e realizzare opere d’arte diventate patrimonio dell’umanità.
Dai lavori della Fondazione Roma, cui hanno partecipato, tra gli altri, Giuseppe De Rita e Mauro Magatti e Stefano Zamagni è mersa la proposta di una mutazione culturale che, favorita dalla modifica dell’art. 118 della Costituzione con l’introduzione del principio di sussidiarietà, rovesci la concezione di stampo statalista ed assistenzialista, avviando il recepimento positivo del contributo dell’associazionismo, dello spirito di iniziativa del privato sociale, della “cittadinanza attiva” per la soluzione dei problemi delle comunità locali che sono, poi, anche quelli dell’intero Paese.