di Valentina Proietti
La mediazione, emblema di un Paese che non vuole o non è in grado di cambiare. Nata per volere europeo, morta per incapacità nazionali. In mezzo un mare di soldi, sogni e speranze disilluse, nella più classica delle consuetudini italiane.
Nascita e finalità
Era il 2008 quando l’Europa chiese all’Italia di introdurre nel proprio ordinamento giuridico un istituto già felicemente avviato in molti altri Stati internazionali, ovvero la mediazione civile e commerciale. Scopo principale del nuovo nato sarebbe stato quello di alleggerire il pesantissimo carico dei tribunali nazionali, sempre più oberati da cause di durata decennale. Il nostro Paese riuscì ad adempiere all’impegno richiesto con l’emanazione del Decreto Legislativo n. 28 del 4 marzo 2010.
Ma in cosa consisteva di fatto questo istituto? La mediazione si concretizzava in un tentativo di conciliazione tra parti private, chiamate a risolvere tra loro una determinata controversia avente ad oggetto diritti disponibili. Detta in parole povere, i due litiganti cercavano di giungere ad un accordo tra di loro, facendo a meno degli organi giudiziari. L’istituto non era sconosciuto al nostro ordinamento, ma fino ad allora era stato adottato in via facoltativa e solo in un paio di settori disciplinari. La vera novità del decreto fu invece l’introduzione dell’obbligatorietà della mediazione in alcune materie civili e commerciali, posta come condizione di procedibilità del giudizio. Le parti venivano quindi obbligate a tentare la conciliazione prima di finire in tribunale, pena il mancato avvio del processo. I principali benefici della mediazione, oltre ai citati effetti deflattivi a favore del sistema giudiziario, erano di non scarsa rilevanza per i privati: costi molto più contenuti rispetto ai processi e una durata massima di 4 mesi. In caso di successo le parti avrebbero quindi risparmiato sensibilmente tempo e denaro. Mentre, in caso di esito negativo, si sarebbe finiti comunque in tribunale. E sì, le spese si sarebbero in questo caso accumulate, ma era un rischio calcolato e più che controbilanciato dall’eventuale ipotesi di successo.
Ruolo del mediatore
L’introduzione di questo istituto rivoluzionò il sistema e, soprattutto, aprì la porta a inedite categorie professionali e nuove frontiere del business. Si delineò la figura del mediatore, descritto come un soggetto terzo ed imparziale avente il ruolo di “pacificatore” tra le parti: tale individuo doveva limitarsi a guidarle verso un accordo, senza ergersi a risolutore o emanatore di decisioni. Da questo punto di vista, il mediatore appariva molto più simile a uno psicologo che non a un giudice, motivo per cui non gli erano richieste competenze giuridiche. L’unico requisito imposto dalla legge era la partecipazione a un corso di formazione professionale di 50 ore e il superamento della relativa prova finale.
Opposizione e critiche dell’avvocatura
Su questo punto iniziò la prima vera battaglia degli avvocati, che gridarono fin da subito allo scandalo. La categoria non si capacitava di come delle questioni di diritto potessero essere risolte da un soggetto privo di conoscenze in materia. Dimenticando che il mediatore non doveva risolvere proprio nulla, ma solo aiutare i soggetti a trovare una soluzione tra di loro, senza applicare articoli del codice. Inoltre, la legge gli concedeva la libertà di avvalersi del supporto di consulenti tecnici esterni, nel caso in cui si dibattesse su materie complesse e settoriali. L’altra grande lamentela riguardava una presunta compressione dei diritti di difesa del cittadino. Si diceva, cioè, che al di fuori dell’aula di tribunale l’individuo non era adeguatamente tutelato. Tuttavia, il privato non era abbandonato a se stesso in sede di mediazione, potendo portare agli incontri il proprio legale. Per la cronaca, gli avvocati hanno partecipato a tutte le sedute di mediazione che si sono svolte nel nostro Paese. La realtà è che la categoria prese di mira la mediazione perché, semplicemente, le sottraeva lavoro. Di fronte alla possibilità di dirimere le controversie in ambito stragiudiziale e con costi molto più ridotti, sarebbe diminuito il numero di cause da portare avanti in tribunale per anni. Lo scopo dell’istituto ovviamente si scontrava con gli interessi personali dell’avvocatura. Non stupisce quindi che la categoria abbia intrapreso un’opposizione di ferro, ostacolando la mediazione in ogni modo possibile. Hanno alzato la voce, organizzato scioperi, messo in atto proteste e inviato lettere al Ministero di Grazia e Giustizia. Nel frattempo, però, dato che la mediazione sembrava avviata verso un futuro radioso, si adoperarono per acquisire a loro volta l’odiata qualifica e operare come mediatori, con tariffe ancor più vantaggiose di quelle di mercato.
La condanna a morte
La mediazione obbligatoria mise a segno una vittoria all’apparenza importante quando venne estesa a materie di peso come le controversie condominiali e il risarcimento del danno derivante dalla circolazione di veicoli e natanti. Neanche a dirlo, fu da questi due settori che arrivò il maggior afflusso di lavoro per gli organismi di conciliazione. Si trattò però di una vittoria di Pirro, perché il vero trionfo fu quello dell’avvocatura, che riuscì a far dichiarare l’illegittimità del D.Lgs. 28/2010, nella parte in cui introduceva l’obbligatorietà della mediazione civile prima di poter adire il giudice ordinario. Il 24 ottobre 2012 la Corte costituzionale ha annullato infatti il relativo articolo del decreto, con motivazione di eccesso di delega legislativa. Si trovò, in sostanza, il cavillo formale proprio su quell’aspetto (l’obbligatorietà) che era stato la ragione stessa alla base dell’emanazione del provvedimento. Ironico, per non dire drammatico. Soprattutto se si considera che l’errore sarebbe stato rimediabile, che si sarebbe potuto ovviare a quell’eccesso di delega se, subito dopo quella sentenza, non si fosse verificata la più grave crisi di governo che la nostra storia contemporanea abbia conosciuto. Allo stato attuale manca un parlamento che rimetta mano al D.Lgs. 28/2010 e adotti le opportune modifiche. Allo stato attuale, manca un governo che prenda una qualunque decisione. E, quando e se tale governo si formerà, di qualunque colore esso sia, non c’è dubbio che la mediazione finirà in fondo alla lista delle cose da fare. A meno di miracoli, si può affermare con un certo margine di sicurezza che la mediazione è lettera morta e che resterà solo una triste e sfortunata parentesi nella storia del nostro ordinamento giudiziario.
La strage degli innocenti
E nel frattempo cosa è successo? Nel frattempo, centinaia di enti hanno messo in piedi corsi di formazione a pagamento (con un costo tra i 600 e i 1000 e passa euro a persona); altrettanti giovani e meno giovani hanno investito il proprio denaro, attratti dalla possibilità di un nuovo e agognato sbocco lavorativo; e, infine, sul territorio italiano sono fioriti circa un migliaio di organismi di conciliazione, la maggior parte dei quali privati. Il Registro del Ministero della Giustizia ne conta esattamente 983. Organismi che nella migliore delle ipotesi non sono arrivati a compiere 2 anni di vita e che si sono visti tagliare le gambe proprio quando cominciavano a intravedere i frutti del proprio lavoro. Ovvero quando la mediazione iniziava a farsi strada tra le diffidenze di un popolo non avvezzo a questo tipo di risoluzione delle controversie, perché non si può certo dire che una simile concezione sia propria della mentalità collettiva italiana. Eppure si stavano muovendo i primi barcollanti passi e forse, con il tempo, si sarebbe riusciti a camminare spediti. Invece si è concluso tutto con la strage degli organismi, caduti come mosche dopo la sentenza della Consulta, a cui seguirà l’inevitabile strage dei singoli mediatori. Davvero triste la parabola della mediazione civile e commerciale. Pensata come lo strumento per scongiurare il collasso del nostro ordinamento giudiziario, alla fine è stata lei stessa a implodere, caduta sotto i colpi letali di un legislatore distratto, di un ordine professionale ostile e di una catastrofica vacanza governativa. Nell’amarezza, resta in piedi un solo interrogativo: cosa accadrà quando l’Europa chiederà nuovamente all’Italia di adeguarsi allo status degli altri Paesi e di osservare l’impegno preso?