Risale al marzo del 2014 l’approvazione quasi all’unanimità al Senato del disegno di legge in materia di eleggibilità e ricollocamento dei magistrati a firma dell’ex ministro della Giustizia, Francesco Nitto Palma, di Forza Italia. E dopo ben tre anni, lunedì il provvedimento approderà in Aula alla Camera. Un’accelerazione dietro la quale potrebbe esserci la vicenda del dem Michele Emiliano che, senza dimettersi dalla carica di magistrato, ha deciso di candidarsi alla segreteria del Pd e sul cui caso c’è pure un fascicolo ad hoc aperto al Csm. Ma su questo ragionamento Palma preferisce non addentrarsi: “Non so se abbia pesato il caso Emiliano o quello ancora più eclatante di Minzolini – ha detto a La Notizia – Ho due certezze però. E la prima è che la questione vada regolamentata, come tra l’altro ci chiede l’Europa”.
E la seconda?
Parlare di accelerazione mi sembra un eufemismo. Questo disegno di legge ha una lunghissima storia alle spalle perché fu presentato la prima volta nel 2001 dall’allora senatore Pierantonio Zanettin, ora al Consiglio superiore. Fu approvato alla Camera e si arenò in Senato. La maggioranza di centrodestra evidentemente non mostrò interesse rispetto al testo. Quindi lo stesso Zanettin lo ripresentò al Senato nel 2005 ma non vide mai la luce, stavolta per l’ostruzionismo del Pd. Così fui io a ripresentarlo prima nel 2011 e poi nel 2013. Il resto è cronaca ‘recente’: è stato approvato al Senato e ora pare approdi alla Camera.
Ha dei dubbi?
È stato tre anni in commissione Giustizia della Camera. Quindi, aspettiamo lunedì. A questo punto credo solo a ciò che vedo.
Il nodo delle porte girevoli tra politica e magistratura, però, a questo punto va sciolto. Non le pare?
Non lo dica a me che mi sono dimesso da magistrato appena fui nominato ministro. Mi rendo conto che possa risultare sbagliato chiedere le dimissioni da togato a una persona che non ha finito di versare i propri contributi pensionistici, ma ritengo altrettanto scorretto che un togato entri politica e poi torni senza regola alcuna a fare il magistrato e a giudicare persone. Poi non ci si può meravigliare se accadono casi come quello di Minzolini che nel collegio d’appello si è imbattuto in un magistrato che era stato eletto nelle fila del Pd.
Il caso Minzolini continua a far discutere.
Il discorso è semplice: la Corte europea nell’attuazione dell’articolo 6 della Convenzione dei diritti dell’uomo afferma che se dopo un’assoluzione in primo grado interviene una condanna in appello bisogna riaprire l’istruttoria. Un principio, tra l’altro, convalidato ripetutamente dalla Cassazione. Nel caso di Minzolini, invece, questo non è avvenuto. Senza contare, poi, che mercoledì scorso abbiamo votato il ddl di riforma del processo penale che contiene una norma che impone proprio questo.
Mentre la riforma, però, deve tornare alla Camera, la Severino è una legge a tutti gli effetti. Come la mettiamo?
La Severino non riguarda il doppio dibattimento. Mentre la riforma non fa altro che codificare quello che è stato già affermato in sede giurisprudenziale dalla Corte europea e di Cassazione.
Che lezione si trae da questa vicenda?
Di sicuro che sulla Severino, legge che con la decadenza di Berlusconi ha esaurito la sua funzione, va avviata una riflessione. E, poi, che il nodo politica-magistratura va sciolto senza perdere altro tempo. Ne va della terzietà dei giudici e credibilità della giustizia.
Come si conciliano nel suo provvedimento i vincoli della Carta?
Nel testo iniziale un magistrato poteva entrare in politica nel rispetto di tutta una serie di restrizioni legate al luogo in cui aveva esercitato le sue funzioni (ed ecco che è garantita parità trattamento per chiunque decida di candidarsi). Per approdare all’avvocatura dello Stato in caso di ritorno in magistratura. Dopo le modifiche parlamentari, tutte volute per lo più dal Pd,le opzioni di ricollocamento sono state estese anche ai ruoli amministrativi presso il ministero della Giustizia e al collegio giudicante, con clausola di astensione, però, di fronte a casi riguardanti esponenti politici.
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