Matteo Renzi affonda, Michele Emiliano attacca, Andrea Orlando cerca di scalare una montagna. E in mezzo ai tre litiganti c’è chi gongola, come Dario Franceschini. A meno di due mesi dalle primarie del Pd, il caos sotto il cielo di Largo del Nazareno è forte. Ma c’è già un vincitore del congresso: il ministro dei Beni culturali. Da settimane, nei fatti, è l’uomo che detta i ritmi del partito, a partire dalla data del confronto interno. È un fatto certo che i renziani puntassero a una assise molto veloce con i gazebo aperti agli elettori addirittura prima di Pasqua. Franceschini ha frenato, ha mediato e ha portato a casa il rinvio al 30 aprile, compiacendo anche il Guardasigilli che non vedeva con favore l’accelerazione eccessiva. Ora attende l’esito dello scontro, muovendo piccoli passi verso il suo approdo ideale: Palazzo Chigi.
L’Orlando bruciato – Nel Pd si va consolidando la convinzione che l’inchiesta Consip indebolierà in maniera pesante Renzi. L’ex presidente del Consiglio non è intenzionato ad arretrare di un centimetro, ma pezzi di classe dirigente, vedi l’ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, e di poteri forti stanno guardando altrove. Tanto che era qualcuno ha pensato allo spostamento del congresso. Un’ipotesi bocciata dal reggente del Pd, Matteo Orfini: “Noi siamo un grande partito e l’idea che in un momento di difficolta’ sia un male discutere con i nostri iscritti ed elettori segnala solo una grande paura della democrazia. Abbiamo bisogno di un confronto con loro, per riflettere sui nostri errori e progettare il futuro del Paese”, ha scritto su Facebook.
Il beneficiario della difficoltà renziana è, almeno a un primo sguardo, proprio Orlando: il ministro della Giustizia si è candidato contro la “prepotenza” in politica. L’obiettivo principale è quello di tenere sotto il 50% Renzi alle primarie, in modo da cercare il sorpasso al ballottaggio. Eppure tra i Giovani Turchi, o quello che resta della corrente, l’umore non è alle stelle: perché dopo questa competizione, per l’attuale Guardasigilli sfuma l’ipotesi di approdare a Palazzo Chigi. In caso di vittoria al congresso, infatti, dovrà caricarsi il Pd sulle spalle, cercando mettere insieme i cocci degli ultimi mesi. Mentre la sconfitta lo costringerebbe a essere il leader della nuova minoranza interna, magari meno litigiosa rispetto a quella bersaniana. Ma di certo non potrà appiattirsi sulle posizione del vincitore.
Attesa premiata – Franceschini, quindi, sta sfoderando la migliore dote democristiana: la pazienza. Che si unisce alla capacità di tessere la tela, facendo attenzione a evitare forzature. Perché quella tela potrebbe strapparsi. Alla fine il percorso potrebbe condurre alla presidenza del Consiglio, ammesso che il Pd sia chiamato a esprimere l’uomo da mandare a Palazzo Chigi.
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