Un tempo eravamo la Repubblica della banane, un Paese preda di una classe politica debole e autoreferenziale. Poi, con l’arrivo del vento populista e della retorica della “rottamazione” siamo diventati direttamente la Repubblica delle panzane. Già, perché la favola del rinnovamento altro non è che la continuazione del potere della solita nomenklatura sotto le mentite spoglie di dati anagrafici diversi. Renzi, Boschi, Madia, Alfano, Lorenzin, Orlando e compagnia, non governano il Paese secondo le esigenze della generazione che rappresentano. E alle loro spalle si avverte forte la presenza dei soliti noti: il fresco di condanna Denis Verdini, ex colonna del governo Renzi; il “nominato in pectore” perenne Romano Prodi; l’evergreen Bersani; l’intramontabile Cavaliere che spera di ricandidarsi, e il Re per tutte le stagioni, Giorgio Napolitano. Il New York Times ha soprannominato quest’ultimo “Re” proprio in funzione della forte influenza esercitata durante i suoi mandati da Presidente della Repubblica, quando cadde il governo Berlusconi e l’incarico di primo ministro fu conferito a Monti per poi passare a Letta. Il Re è stato l’unico Presidente italiano a essere rieletto per un secondo mandato, durante il quale ha deciso parte dei ministri della squadra di Renzi, continuando a influenzare le scelte dell’esecutivo.
Instancabile – Allora Napolitano impose la sua linea e il suo programma all’ex premier, suggerendogli la via per fare fuori i populisti e far governare l’Italia non da chi prende i voti, ma da chi decidono lorsignori nelle segrete stanze di Roma, Bruxelles e Francoforte. Ma non finisce qui. Dopo l’elezione del suo successore il novantenne senatore a vita continua a avere voce sulle sorti del Paese. Dopo aver scaricato l’ex premier, ora Napolitano fa il tifo per il guardasigilli Orlando, e certamente non lo nasconde ai suoi amici più influenti. Le opposizioni che tanto gridano al rinnovamento non sono da meno: non è mistero che dietro ai volti puliti di Di Maio, Di Battista e compagnia ci sia il dominus Beppe Grillo, classe 1948. La retorica dei giovani al potere non regge più. Una nuova classe dirigente non cambia solo le date di nascita sui certificati della Camera dei deputati ma cambia l’Italia. Non cambia il modo di indossare le cravatte o di portare il tailleur, ma cambia il sistema burocratico. Non cambia il menù della bouvette del senato ma cambia quello delle riforme. Una generazione indipendente spezza i legami col passato e si aggiudica il diritto di rappresentare se stessa e il futuro, che oggi non è altro che nostalgia dell’avvenuto.