Ha ceduto sulla convocazione del congresso del Pd, con il sogno delle elezioni a giugno sempre più a rischio slittamento. Anche se una finestra resta aperta. E in cambio di queste rinunce Matteo Renzi ha strappato un punto pesante a suo favore: la conta interna si farà subito. L’ex presidente del Consiglio ha così ottenuto un duplice risultato: cercare quella legittimazione, duramente colpita con la sconfitta rimediata il 4 dicembre sul referendum, e non dare il tempo agli avversari per la segreteria di organizzarsi nel migliore dei modi. Tanto che la minoranza dem, che con Pier Luigi Bersani ha chiesto senza esito un impegno a terminare la legislatura nel 2018, ha chiuso la giornata agitando ancora lo spettro della scissione. “Vedremo”, si è limitato a dire l’ex segretario sull’eventualità di una fuoriuscita dal partito. Nel dubbio il presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano, ha confermato di essere pronto alla sfida. “Quella di candidarmi alla segreteria è una cosa che sento di fare, necessaria”, ha affermato in direzione. Sempre ammesso che resti nel Pd fino al congresso. Lo stesso governatore pugliese ha infatti attaccato: “Non so come si fa a fare il congresso senza sapere qual è la legge elettorale. Ma che roba è?”. Al fianco della minoranza, c’era questa volta anche il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, che aveva chiesto una conferenza programmatica per un confronto approfondito.
La strategia – Renzi esce dalla direzione nazionale del partito solo con un piccolo passo indietro, ma con la consapevolezza che tra pochi mesi potrà essere di nuovo un leader pienamente in sella. Rompendo l’accerchiamento e forse liberandosi dai “rompiscatole” della sinistra interna. Ufficialmente il periodo del congresso sarà deciso nell’assemblea convocato nel fine settimana. Ma la maggioranza del pletorico organismo è nelle mani renziane, che entro aprile vuole chiudere la pratica. Sulla tempistica la posizione del segretario è stata netta: “C’è un limite a tutti. Io non posso pensare che la gente che fa le feste dell’Unità ci venga a raccontare per l’ennesima volta che stiamo sei mesi a discutere tra di noi su niente”, ha scandito. Una bocciatura della proposta di Bersani: “Il governo deve governare e da giugno comincia la pratica ordinaria del congresso”, aveva detto l’ex segretario, con i suoi che avevano presentato un documento per impegnare il Pd a confermare la fiducia al Governo fino al 2018. La mozione è stata però respinta, facendo prevalere la linea del “congresso subito”. E per l’Esecutivo… si vedrà. Anche se Renzi ha aggirato l’argomento: “Non ne sto fuori in modo tattico, ma per convinzione. La decisione spetta al presidente del Consiglio, ai ministri, ai parlamentari”.
Governo appeso – Ma la mancata votazione dell’ordine del giorno a supporto del Governo non è passata inosservata. Bersani ha parlato di “un congresso cotto e mangiato, con una spada di Damocle sul nostro governo mentre dobbiamo fare la legge elettorale e mentre si fanno le amministrative”. E anche il deputato lettiano Francesco Boccia ha usato toni duri: Abbiamo un segretario che pretende di fare un congresso lampo di qualche settimana, mandando a casa l’ennesimo governo targato Pd e non assumendosi la responsabilità politica del Pd verso la legislatura”.