Sognava di essere un uomo solo al comando. E invece è rimasto un uomo solo. Con l’obiettivo di tornare a Palazzo Chigi che si allontana giorno dopo giorno, mentre l’invisibile premier Paolo Gentiloni consolida la posizione. Nella battaglia per riprendersi il potere, infatti, Matteo Renzi sta perdendo pezzi. Al suo fianco ci sono i fedelissimi di sempre, disposti a tutto per assecondare il desiderio di andare alle elezioni, anche perché con l’uscita di scena del leader non avrebbero grosse speranze di tornare in gioco. Il problema è che molti alleati, che hanno a disposizione opzioni politiche alternative, stanno scrutando altre strade, immaginando un futuro senza il Rottamatore alla guida del Pd e quindi senza chance di insediarsi alla presidenza del Consiglio. Le varie anime del partito si muovono in libertà: la corrente Areadem, che fa riferimento al ministro Dario Franceschini, è solo l’ultima ad aver acquisito – seppur senza troppo rumore – maggiore autonomia dalla nave renziana. Gli unici a coadiuvare il segretario dem sono i Giovani Turchi di Matteo Orfini. Eppure, l’altro leader della corrente, il ministro della Giustizia Andrea Orlando, si sta ritagliando uno spazio personale, forte dell’incarico governativo.
Cari nemici – In questo quadro di leader quasi abbandonato, l’ex premier sta trovando la sponda più impensabile: quella dei suoi nemici storici, Lega e Movimento 5 Stelle. Matteo Salvini e Beppe Grillo ripetono come un disco rotto di volere il voto anche con la legge elettorale uscita fuori dalla sentenza della Corte costituzionale. L’obiettivo comune ha unito figure lontanissime su tutto, che in campagna elettorale si farebbero la guerra in ogni momento. E che non vedono l’ora di rivaleggiare per aggiudicarsi la vittoria alle urne. La solitudine politica di Renzi emerge proprio in questo paradosso: nel momento di maggiore difficoltà della sua carriera politica, deve aggrapparsi agli avversari.
Illusione – Così è durata una notte l’illusione di accelerare sulle elezioni anticipate. Il tempo di annotare la decisione dei capigruppo alla Camera, che hanno fissato la discussione sulla legge elettorale per il 27 febbraio. La mattina seguente sono partiti i fuochi incrociati, che hanno preso di mira Renzi: da un lato l’ex presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, che ha parlato di voto a fine legislatura “come nei Paesi civili”; dall’altro il Parlamento che si è spellato le mani per applaudire l’intervento del deputato di Sinistra italiana, Gianni Melilla. Una standing ovation tributata anche da una nutrita pattuglia di parlamentari dem. “Dal 2012 i vitalizi non ci sono più, ci sono le pensioni rapportate ai contributi versati e che ogni parlamentare si prende a 65 anni con lo stesso meccanismo che vale per tutti i lavoratori italiani”, ha affermato Melilla, rispondendo al messaggio di Renzi sulla necessità di “andare al voto prima che scattino i vitalizi”. A vedere l’Aula di Montecitorio, il segretario dem non sembra in grande sintonia con i suoi parlamentari. Che dovrebbero avallare il suo progetto.
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