A poche ore dall’Election Day il clima, com’era facilmente immaginabile, si sta facendo sempre più rovente, in linea con gli auspici e, soprattutto, in linea con la caratura dei personaggi in campo. Da una parte Hillary Clinton, bersaglio facile per i suoi detrattori dopo le indagini dell’Fbi sul Mailgate; dall’altra Donald Trump che, più che qualificarsi come magnate o come candidato alla presidenza per i repubblicani, in questi mesi ha dato prova che l’aggettivo che più di ogni altro calza a pennello su di lui è quello di “sessista”.
ARMI E GENERALI
L’ultimo attacco, d’altronde, è arrivato soltanto ieri, quando il tycoon ha laciato intendere che i generali non vogliono Hillary Clinton come loro prossimo commander in chief. Un’uscita, manco a dirlo, mashilista, quella di Trump che ha “preferito” deragliare dal testo che stava leggendo durante un comizio rivolti a veterani e militari a Selma, North Carolina. “Pensate che la vorrebbero come loro boss? Non penso”, ha detto riferendosi alla candidata democratica. “So quello che pensano”, ha aggiunto, suggerendo che i generali stanno rispettando il silenzio per ragioni di protocollo. Non si respira aria più mite dalle parti della Clinton. Fino ad ora l’ex first lady poteva dormire sonni tranquilli, coccolata da sondaggi che le davano un vantaggio netto nei confronti di Trump. Ora non è più così. Le ultime giornate politiche vedono sempre in piano l’inchiesta delle mail da parte dell’Fbi, con un potenziale allargamento del filone sulla Clinton Foundation e le sue attività, considerata una instancabile macchina da soldi per i coniugi presidenziali.
Certo: a questo punto l’ipotesi di una chiusura, o quanto meno di una primo resoconto dell’indagine prima dell’8 novembre sembra un’ipotesi lontana, ma l’esistenza stessa di un’indagine che sta occupando un peso preponderante negli ultimi giorni di campagna elettorale potrebbe influire pesantemente sul risultato del voto. E non è un caso che, stando agli ultimi sondaggi, la candidata democratica conta oggi meno di 270 grandi elettori, a fronte dei 204 del rivale repubblicano. La forbice quindi si è ridotta e con essa l’ipotesi di un “recupero zoppo” da parte di Trump, ovvero di un recupero nei sondaggi Stato per Stato a cui non corrisponde un rafforzamento in termini di grandi elettori a causa dell’assegnazione con premio maggioritario di alcuni grandi Stati dove era in testa Hillary. A conti fatti, oggi il magnate è in vantaggio in Ohio e Florida e alla pari in Carolina del Nord. Tanto che pure Hillay è costretta a correre ai riparti, inviando il vice Tim Kaine in Arizona per la conquista del feudo repubblicano del senatore John McCain, uno dei defezionisti del Gop insofferenti al trumpismo.
SISTEMI OCCULTI
Ma intanto, dopo essere rimasti in sordina a lungo, i poteri forti sembra ora vogliano entrare di peso nella campagna americana. Non a caso ieri uno studio degli analisti di Citigroup, hanno detto, nero su bianco, che “una vittoria di Trump determina il rischio di una crescita più lenta o di una recessione, specie se gli scambi commerciali saranno limitati e i piani di espansione fiscale rivisti. L’incertezza da sola potrebbe colpire l’economia. Anche la crescita globale subirebbe ricadute se l’incertezza aumentasse”. Un modo, insomma, per scoraggiare gli indecisi sul votare Trump. E come se non bastasse a parlare è stato anche Julian Assange che, in un’intervista rilasciata a Russia Today, ha detto senza giri di parole che “a Trump non è permesso di vincere. Perché dico questo? Perché le banche, l’intelligence, le aziende di armi, i soldi stranieri, sono tutti uniti dietro Hillary Clinton. E i media pure. I proprietari dei media e i giornalisti stessi sono con Hillary”. E la chiamano democrazia.