Dario Fo se n’è andato. Il regista, lo scenografo, lo scrittore, l’autore, il pittore. L’uomo di sinistra fuori dal coro, leader involontario di una sinistra senza leader, il militante senza bandiere. Il giullare che si fa beffe del potere, il Nobel che fa infuriare gli intellettuali rattrippiti. Dario Fo. E ora le battute potrebbero sprecarsi. È morto un Re, avrebbe detto forse il maestro Enzo Jannacci, riprendendo una sua canzone storica, di cui resta indelebile un video in cui a intonarla insieme a Jannacci sono Giorgio Gaber e Adriano Celentano. E lui, il Re. O “giullare” della cultura italiana, come lui stesso amava definirsi. Dario Fo se n’è andato via. È uscito di scena dopo aver macinato palcoscenico per gran parte dei suoi pienissimi 90 anni. Oggi, certo, tutti sono pronti a beatificarlo. Ma negli anni Fo ha dovuto combattere. E tanto. Ma sempre col sorriso. Rimarranno pietre miliari del teatro civile spettacoli come Morte accidentale di un anarchico: una miscellanea di satira, ironia e paradosso che rendono allo spettatore uno spettacolo talmente surreale come solo la realtà – quella viva, italiana, storica – sa essere. Certo è che questo giullare e mimo, autore e polemista, agitatore politico ha segnato assieme all’amata Franca Rame la storia italiana dagli anni ‘60 agli anni ‘90 del Novecento, sempre andando un po’ controcorrente, cercando sin dall’inizio di mettere Il dito nell’occhio del potere, come si intitolava il suo primo spettacolo del 1953, con Franco Parenti e Giustino Durano, cui seguì Sani da legare, subito colpito dalla censura con anche un primo scontro di Fo con la Rai, e l’abbandono della sua trasmissione radio.
IL PREMIO CONTESTATO – Ma Fo è stato tanto altro ancora. Ha inventato un linguaggio e, con esso, un mondo unico, popolato da figure, immagini, visioni inestimabili. Il ’69 è l’anno della consacrazione (non a caso: pure l’anno di Piazza Fontana, che darà vita a Morte accidentale di un anarchico) con Mistero Buffo, dove Fo riprende a modo suo la lezione dei fabulatori e dei cantastorie, raccontando tra sacro e profano, sberleffi e commozione, le storie della Bibbia e dei Vangeli, di papi tronfi e di villani sagaci. Anche tramite il grammelot, dunque, Fo ha ridato dignità agli ultimi al di fuori di ogni retorica. Come l’arte, e solo l’arte sa fare. Solo per stupido pregiudizio c’è stato chi ha contestato il premio Nobel per la letteratura che gli fu assegnato nel 1997 contro “la cultura paludata”: era un riconoscimento, certamente non scontato ma per nulla arbitrario, alla qualità del suo lavoro e al grande eco che ha avuto in tutto il mondo.
L’IMPEGNO – Basterebbe questo per dare a Fo il posto che gli spetta nella storia, culturale e non, del nostro Paese. Ma c’è tutta un’altra dimensione che ha un peso enorme nella vita di Dario Fo. Perché è stato (anche e soprattutto) un artista impegnato, dentro e fuori dai teatri. Chissà, forse Fo avrebbe voluto legare il suo nome solo alle battaglia portate avanti in nome della cultura italiana. Come quella contro la storica censura a Canzonissima (per uno sketch sulla sicurezza nei cantieri edili), che costò a lui e alla Rame un ostracismo che durò ben 14 anni. Una censura di cui, forse, lo stesso Fo ha poi gongolato, perché spesso la parte del censurato in Italia paga. E non poco, dato che suo malgrado Dario Fo si è ritrovato etichettato, proprio lui che aveva aspirazioni anarchiche. Leader involontario di una sinistra fisiologicamente allo sbaraglio, senza leader e senza parte, che ritrovava nell’attore scomodo un punto di riferimento.
FO E GRILLO – E così è stato poi per il Movimento 5 Stelle. Fo sperava vivamente nel cambiamento e nell’onestà politica e intellettuale dei 5 stelle. Una fiducia che negli ultimi tempi era franata: “Nel Movimento – aveva detto pochi giorni fa in un’intervista a Repubblica – bisogna che si cancelli tutto. Occorre che tutto torni ad essere come una pagina bianca. Poi si potrà tornare a fare i conti. E si potrà ripartire da capo”. Intanto il sipario è calato. Su Fo. Ma non sulla cultura e sul teatro italiano. Perché, direbbe il maestro, “sempre allegri bisogna stare”.