Piero Fassino lascia l’Anci, l’associazione dei comuni, dopo la sconfitta nelle ultime amministrative a Torino. Anche se a rigore, stando allo statuto, avrebbe potuto continuare. Si chiude una parentesi, durata appena tre anni, che ha fatto dell’ultimo segretario dei Ds e oggi autorevole dirigente del Pd un leader ossequioso delle dinamiche di una organizzazione più attenta oggi che in passato ai criteri della buona educazione burocratica, specie verso il Governo. Forse a causa della lunga ubriacatura federalista, per cui anche l’Anci negli ultimi vent’anni ha vestito i panni della propaganda paraleghista – impreziosita dai nuovi parametri delle norme legislative (decreti Bassanini di fine anni ‘90) e costituzionali (Titolo V del 2001) – la ripresa del “progetto autonomista” stenta a riprendere consistenza politica.
L’abbandono della cultura federalista non è un esercizio facile.
L’attuale riforma costituzionale del Titolo V, integrata nel vasto cambiamento delle seconda parte della Carta fondamentale, rappresenta un brusco contraccolpo che riporta indietro le lancette, dando allo Stato poteri di vita o di morte sulle Regioni e sui Comuni. Pure su ciò si dovranno pronunciare gli elettori con il referendum. Ma il rischio è che si passi da un eccesso di frantumazione delle competenze a un massimo di riaccentramento dei poteri in capo allo Stato. Sarebbe stato meglio, vista la necessità di correggere il testo riformato del 2001, ripristinare sic et sempliciter gli articoli del Titolo V della Costituzione del ’48: avremmo respirato un’aria di maggiore rispetto per le autonomie locali. Ora, di fronte al congresso che a Bari, il prossimo 12 ottobre, procederà per alzata di mano alla elezione del nuovo presidente, si pongono seri problemi in ordine al rilancio dell’Anci. Il caso vuole che il nuovo presidente, il sindaco del capoluogo pugliese, Antonio Decaro, sia stato presentato dalla stampa come il candidato di Renzi; ciò vuol dire, per amaro paradosso, che il capo del Governo ha scelto il capo dell’associazione rappresentativa dei comuni. Di fatto, per una estrapolazione logica, l’Anci viene a configurarsi alla stregua di una struttura collegata e dipendente dalla politica governativa.
Non c’è chi non veda l’assurdo di tale allarmante raffigurazione: se così fosse, andrebbe in fumo il dato formale e materiale dell’autonomia dell’associazione. Per altro, a conferma di questo rischio, sta la norma che di recente ha introdotto con i decreti Madia la “pubblicizzazione” dell’Anci. Dunque, si è innescato un meccanismo che nel giro breve trasformerebbe l’associazione in un Cnel più grande e complicato dell’originale: un Cnel delle autonomie che dovrebbe pure faticare a trovare la sua ragion d’essere, se vince il Sì al referendum, al cospetto di un eventuale Senato delle autonomie. Davvero un pasticcio incomprensibile. Dal congresso di Bari, allora, si attende una risposta seria. Le autonomie non sono un lusso, ma un elemento prezioso dell’ordinamento repubblicano. Ecco perché il nuovo presidente Anci è chiamato ad affrontare proprio la questione della rinascita della nostra democrazia locale.