di Mimmo Mastrangelo
Penso che si provi sempre un forte brivido ascoltare “Le vent nous portera” dei Noir Désir, avvertire come una ebbrezza la voce vellutata del leader ribelle (e maledetto) della rock-band francese (scioltasi nel 2010), Bertrand Cantat, che intona “…mentre aumenta la marea/ognuno fa i propri conti/ io mi ritrovo in fondo alla mia ombra/polvere di te/il vento ti porterà/ ma il vento ci guiderà…”.
Un capolavoro in assoluto di poesia e struggente malinconia dell’ultimo decennio (uscito nello stesso giorno dell’attentato alle Torri gemelle di New York) che Cristiano De Andrè ne ha rifatto una splendida versione tutta in italiano e l’ ha inserita in “Come in cielo così in guerra”, (Nuvole Production), album da qualche settimana sul mercato arrivato a dodici anni distanza dall’ultimo “Scaramante”.
Per realizzarlo De Andrè è volato in California e si avvalso dell’aiuto di Corrado Rustici, che ne ha curato gli arrangiamenti, e della partecipazione di artisti sempre più richiesti a livello internazionale, come il bassista e compositore Kaveh Rastegar e il batterista Michael Urbano (lavora da un po’ di anni anche Ligabue).
Dieci tracce che si tengono insieme senza stridore anche se De André (che, oltre a cantare, suona violino, bouzouki e chitarra acustica) ha cercato di mischiare le carte del rock con l’etno, dell’elettronica con la word music (qui i sentori di Peter Gabriel si avvertono eccome).
Un album curatissimo nei minimi dettagli con De Andrè-figlio che si racconta senza nascondersi e lascia pulsare dentro le sue canzoni gli ideali, l’amore, il legame spesso conflittuale tra genitori e figli, l’ affanno dell’ affrontare la vita che è poi il disagio del vivere di tutti. Ci ha messo in questo lavoro il cuore e, soprattutto, la poesia che permette di osservare, abbracciare più in profondità le cose e la vita.
Dai dieci pezzi sicuramente viene fuori un Cristiano De André fortemente ispirato che si veste da demone e angelo, da viandante con le sue certezze e insicurezze.
Oltre alla cover dei Noir Désir che, tra l’altro, ha un testo tanto in sintonia col pensiero più deandreano (nel senso che è affine tanto al padre Fabrizio che al figlio Cristiano) del sentirsi sulla terra profughi infiniti, si può provare una certa emozione nell’ ascoltare altri brani ricchi di candore e delicate sfumature come “Non è una favola”, “Disegni nel vento” e “Sangue del mio sangue”, ma sono altrettanto da scoprire “Ingenuo e romantico” e “Vivere”, le cui sonorità più si ascoltano e più entrano dentro.
Una nota a parte meritano “Le bambole della discarica”, testo scritto insieme al poeta pavese Oliviero Malaspina dove le donne (le bambole) di cui si parla sono le puttane di oggi che si vendono non per soddisfare il bisogno primario del pane, ma per arrampicarsi sullo specchio di un benessere illusorio, e sicuramente “Credici”, un pezzo indiscutibilmente politico in cui si può specchiare lo stato di un Paese malridotto, “svenduto al peggior dei medioevi”, dove viene richiamata alle sue responsabilità anche la “Santa Madre Chiesa” che ha voltato le spalle a Cristo per inchinarsi allo Ior e all’Opus Dei. In questa stagione ci mancava nel panorama della musica italiana un album così ricercato e ponderato su un ben definito stilema di generi, ed ora ci è arrivato da Cristiano De Andrè come se fosse un delicato fiore (dono) di primavera. Domani sera l’atteso concerto all’Auditorium di Roma.