Il nuovo Procuratore della Repubblica di Catanzaro, Nicola Gratteri, l’aveva detto in tempi non sospetti: “Non si può fare dell’antimafia un mestiere”. Perché spesso, troppo spesso, il piedistallo sul quale ci si erge finisce con l’essere solo una vetrina dietro cui le manie di onnipotenza in cui si cade, finiscono col giocare brutti scherzi a finti (o ex) paladini della giustizia e della lotta alla mafia. È questo quello che, almeno secondo alcuni, è capitato a Pino Maniaci, anche se il direttore di Telejato rimane saldo sulla sua linea secondo cui sarebbe tutto un complotto.
Ma il punto è un altro. Anche se Maniaci dovesse alla fine essere condannato per estorsione, sarebbe solo l’ultimo di una fila piuttosto lunga di personaggi simbolo dell’antimafia e che, col passare del tempo, si sono rivelati essere più assimilabili al mondo criminale che a quello della legalità. Prendiamo Rosy Canale. Era divenuta un nome e un volto noto dell’antimafia per le sue campagne in favore delle donne di San Luca. Peccato, però, che con i soldi di enti e fondazioni si viziava con vestiti e borse di marca, mobili per la propria casa, viaggi e persino un’automobile. Tanto è bastato ai giudici del Tribunale di Locri per condannarla a quattro anni di carcere.
Eppure la Canale, accreditandosi come imprenditrice “con la schiena dritta”, vittima addirittura di un pestaggio per aver sbarrato il passo agli spacciatori quando gestiva un noto locale reggino, la donna aveva fondato a San Luca un movimento che – almeno ufficialmente – avrebbe dovuto dare speranza e lavoro alle donne del piccolo centro nei pressi di Reggio Calabria storicamente soffocato dalla ‘ndrangheta. In realtà, puntava solo ad arraffare quattrini.
Un’indagine molto simile ha coinvolto pure Claudio La Camera, l’ex presidente del Museo della ‘ndrangheta, indagato dalla Procura di Reggio Calabria per truffa aggravata ai danni dello Stato, falsità ideologica e appropriazione indebita. Il motivo? Presunte irregolarità nella gestione dei finanziamenti pubblici ricevuti: parte dei fondi ricevuti dal Museo sarebbero stati utilizzati da La Camera per viaggi non autorizzati e spese non attinenti con l’attività della struttura, tra le quali la riparazione di un’automobile, l’acquisto di un i-pad, di pinze per il bucato, di oggetti di modellismo e anche di un pollo di gomma per fare giocare un cane, oltre a cibo per animali. Un’indagine, peraltro, che ha coinvolto non solo La Camera, ma anche i componenti dell’ex giunta regionale della Calabria di centrodestra guidata da Giuseppe Scopelliti per concorso in abuso d’ufficio in relazione alle delibere di giunta con cui sono stati stanziati i finanziamenti in favore del Museo della ‘ndrangheta diretto da La Camera.
Finita qui? Purtroppo no. Altro simbolo antimafia era anche il magistrato (ed ex presidente delle Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo) Silvana Saguto, prima che il Csm la sospendesse dalle funzioni e dallo stipendio poiché indagata per corruzione, abuso d’ufficio e riciclaggio nella gestione dei beni confiscati. Una vicenda incresciosa, considerato che gli abusi si sono verificati “in un ufficio storicamente impegnato nella lotta alla criminalità organizzata e proprio per questa ragione considerato nel Paese un simbolo e un punto di riferimento della legalità”, come detto dal Csm. Ma non basta. Perché capita anche che chi dovrebbe rappresentare più di tutti la lotta alla mafia in campo politico, com’è il presidente della commissione Antimafia di un Consiglio regionale, finisca con l’essere indagato per voto di scambio politico-elettorale di tipo mafioso. Esattamente come capitato in Campania e, più precisamente, con la consigliera regionale di Forza Italia, Monica Paolino, che si è dimessa per “senso delle Istituzioni”. Fino ad arrivare all’ultimo, clamoroso caso con Pino Maniaci. Forse tuti dovremmo trarne una conclusione. L’antimafia non ha bisogno di emblemi e simboli. Non ci sono eroi. C’è solo un modus vivendi che dovrebbe appartenere a tutti. Perché non c’è antimafia. C’è solo il dovere civico di combattere l’illegalità e la brutalità dell’antistato.