di Carmine Gazzanni
Destinare l’otto per mille anche alla costruzione delle nuove moschee per integrare la comunità Islam in Italia. La proposta, che Massimo D’Alema ha lanciato in un’intervista a Radio Anch’io (Radio Uno), non poteva non innescare una marea di critiche e di improperi di ogni sorta da parte del centrodestra, con in testa – manco a dirlo – sempre lui, Matteo Salvini che si è lanciato in dichiarazioni bislacche secondo le quali destinare l’otto per mille anche agli islamici equivarrebbe a imporre “il velo alle nostre ragazze a scuola”.
PESI DIVERSI – In realtà, la questione andrebbe affrontata non di pancia, come fatto da tanti esponenti politici (Lega Nord in primis). E bisognerebbe, allora, partire dai numeri. Qualche mese fa il Cemiss, Centro militare di studi strategici del ministero della Difesa, ha realizzato un dossier sulla comunità islamica italiana e sul suo “indice di radicalizzazione”. Ebbene, dal rapporto emerge come oggi in Italia siano 1,6 milioni le persone musulmane. Circa un terzo degli stranieri presenti, cui si aggiungono 60-70 mila italiani convertiti. Ebbene: costoro, pur volendo, non hanno alcuna possibilità di destinare la propria quota di reddito per la comunità religiosa in cui vivono. Come invece possono fare – un caso su tutti – gli Avventisti del Settimo Giorno. Tutto legittimo e giusto, per carità. Però una domanda bisogna farsela: quanti sono gli Avventisti oggi in Italia? Ce lo dice il Cesnur (Centro Studi sulle Nuove Religioni): secondo i dati aggiornati al 2015, in Italia i membri di Chiesa registrati come tali sono, con 140 chiese e luoghi di culto e 69 pastori, 9.600. Un tantino meno rispetto agli islamici che, a questo punto, avrebbero perlomeno uguale diritto rispetto agli Avventisti. Ma torniamo alla relazione del Cemiss, dalla quale emerge un altro aspetto non secondario. Nonostante, come detto, i fedeli siano 1,6 milioni, le moschee ufficiali sono solo 4 (Segrate, Roma, Ravenna e Colli di Val d’Elsa). Per il resto, invece, parliamo di oltre ottocento luoghi di culto sparsi in tutta Italia, da Nord a Sud, che solo impropriamente possiamo definire moschee. Parliamo, in realtà, di garage, cantine o capannoni adibiti a ritrovi religiosi.
TUTTO FERMO – Ritrovi, per quanto dice il rapporto, spesso molto pericolosi, proprio perché non controllati. Scrive infatti il Cemiss: “Complessivamente, le organizzazioni radicali sono quasi una decina, gli Imam radicali una ventina e le moschee che hanno mostrato idee radicali 108, le quali sono sparse in tutto il Paese, in città importanti come Milano, Roma, Torino, Firenze, Napoli, Venezia e Genova”. Insomma, ci sarebbero tutte le ragioni per fare in modo che gli islamici italiani abbiano la possibilità di destinare il loro otto per mille alla propria comunità. Ma ecco l’ultimo problema: in Italia, forse pochi lo sanno, la comunità islamica non è un ente giuridico riconosciuto e dunque non può accedere al fondo. Tutto questo, nonostante le prime richieste per il riconoscimento risalgano agli anni ‘90. Ovvero 27 anni fa. Come sempre, ritardi all’italiana.
Tw: @CarmineGazzanni