Villone: “Premierato e Autonomia. Il governo Meloni porta il Paese allo scasso”

Parla il costituzionalista, Massimo Villone: "C’è il pericolo di una deriva autoritaria".

Villone: “Premierato e Autonomia. Il governo Meloni porta il Paese allo scasso”

Premierato, Autonomia, separazione delle carriere. Massimo Villone, professore emerito di Diritto costituzionale nell’Università “Federico II” di Napoli. Qual è il disegno del governo?
“Il disegno del governo è quello dello sfascia- carrozze. Portare l’Italia allo scasso. Ma la verità è che noi abbiamo un disegno che non è frutto di un ragionamento di sistema ma è frutto di un assemblaggio di obiettivi diversi, ciascuno dei quali è imputato a un soggetto interessato. Questa trilogia è la giustapposizione di pezzi separati: autonomia per la Lega, giustizia per Forza Italia, premierato per Fratelli di Italia. Peraltro c’è anche una contraddizione tra il premierato che esprime una volontà accentratrice e una concentrazione verticale del potere e l’autonomia che disarticola il Paese in tanti statarelli semi-indipendenti che tolgono gli strumenti dalle mani di Palazzo Chigi, di Palazzo Madama e di Montecitorio. Non c’è una compensazione ma una contraddizione tra queste due riforme che porterà a un’inefficienza di sistema inevitabile”.

Partiamo dal premierato. Lei è tra gli oltre 180 costituzionalisti che hanno firmato un appello che boccia la riforma. Nel mirino, tra le altre cose, c’è la mancanza dei contrappesi rispetto ai poteri del premier.
“Il disegno che ha in testa Giorgia Meloni, e che è stato tradotto con qualche contraddizione se vogliamo nel testo, è quello dell’elezione diretta di chi governa che trascina con sé la sua maggioranza parlamentare. Ovvero, il disegno di Meloni si completa con una legge elettorale che garantisce al primo ministro di avere la sua maggioranza in Parlamento. Questo punto è quello che poi indebolisce il sistema nel suo complesso, perché ovviamente il primo ministro, con una maggioranza garantita, mette le mani anche sugli organi di garanzia nei quali ha potere di nomina parlamentare: quindi presidente della Repubblica, Csm, Corte costituzionale. C’è un complessivo indebolimento del sistema dei pesi e dei contrappesi”.

Agli strapoteri del premier corrisponderà un capo dello Stato con poteri ridotti?
“Sì, perché il capo dello Stato perde tutti i poteri inerenti alla formazione del governo e alla successione dei governi. Poteri che formalmente mantiene ma che nella sostanza passano ad altri. Il suo margine di valutazione è sostanzialmente azzerato”.

Che ruolo rimarrà al Parlamento?
“Nessuno. Se il Parlamento è fatto di una maggioranza che è al traino del presidente del Consiglio è un Parlamento per definizione di yes man, di gente che alza la mano e basta”.

Addio dunque alla democrazia parlamentare?
“Questo mi pare evidente. In realtà la ‘democrazia parlamentare’ è un’etichetta che ora si vorrebbe tradurre in ‘democrazia decidente’. Ad alcuni piace questa formula. Il problema è chi decide e chi obbedisce”.

Autonomia differenziata. Il campo delle materie oggetto di Autonomia deve farci paura?
“Le materie sono tutte. E in queste materie abbiamo tutto lo spettro dell’azione pubblica. Dal rapporto con l’Unione europea al commercio con l’estero, le professioni, la tutela e la sicurezza del lavoro, la sanità, l’istruzione, la protezione civile, le grandi reti di trasporto e di comunicazione, tutto… Se noi pensiamo alle materie di cui discutiamo vediamo lo Stato e i soggetti pubblici nell’azione quotidiana. L’ampiezza è spropositata e questo fu uno dei grandi errori fatti nel 2001 con la riforma del Titolo V. Un errore che nel 2003 denunciai quando ero in Parlamento, presentando una proposta di legge costituzionale che radicalmente modificava l’articolo 116 e l’articolo 117, cancellando l’Autonomia differenziata. L’ampiezza delle materie è il primo vulnus. Poi se guardiamo a queste materie si vede una frammentazione del Paese che impedisce le politiche pubbliche necessarie strategiche. Se noi frammentiamo il Paese, per esempio per le grandi reti di trasporto e di comunicazione, stiamo impedendo di avere un sistema efficiente. E se frammentiamo l’ambiente e il territorio introduciamo una diversificazione che è un danno al sistema-Paese. Confindustria non a caso è contraria all’Autonomia, perché si pone il problema delle imprese di fronte a una molteplicità di regolamentazioni, per esempio ambientali o di sicurezza sul lavoro. Riassumendo: abbiamo un primo problema delle politiche nazionali di riequilibrio e di riduzione dei divari territoriali e delle disuguaglianze che diventano o difficili o impossibili. Un secondo problema di impossibilità di garantire invece un contrappeso a questa frammentazione con i livelli essenziali di prestazione. Che sono essenziali e dunque garanzia di un minimo che può essere anche troppo minimo per essere davvero efficace. Ma non ci sono risorse né oggi né si intravedono in prospettiva. Dove pensiamo di avere i soldi per l’erogazione dei Lep? Da un lato dunque frammentazione e impossibilità di politiche pubbliche generali di riequilibrio e di recupero dei divari e delle disuguaglianze e dall’altro non abbiamo il correttivo dei Lep”.

Professore, lei presiede anche il Coordinamento per la democrazia costituzionale. È d’accordo sulla raccolta firme per il referendum abrogativo dell’Autonomia differenziata?
“Certamente se partirà l’opzione referendaria ci saremo anche noi. Ma, dal momento che il referendum ha una tempistica di procedimento molto lenta – nella migliore delle ipotesi si vota a metà 2025 e nella peggiore a metà 2026 – e che l’Autonomia differenziata può esserci ora su una serie di materie non soggette ai Lep, bisogna far partire subito i ricorsi da parte delle Regioni davanti alla Corte costituzionale. Questi possono essere presentati entro 60 giorni dalla pubblicazione della legge in Gazzetta ufficiale. Le due cose non sono alternative, si completano. Io penso che sia bene che parta subito un ricorso davanti alla Corte costituzionale e contemporaneamente si può avviare anche il procedimento referendario”.

E poi c’è la Giustizia. È vero che il governo mira a ricondurre sotto il suo controllo il potere giudiziario?
“Qualcuno certamente ci punta. Ma il problema non è questo ma è se la riforma nel suo complesso determini lo scivolamento del pubblico ministero verso un ambito di influenza che non potrà che essere quello del potere esecutivo. Se si toglie il Pm da quella che è una cultura unitaria della giurisdizione, c’è questo pericolo di probabile scivolamento verso un’area di influenza riferita al potere politico. Che poi, sia detto, non è che ci siano stati tutti questi passaggi di carriere. Anzi sono stati ridottissimi. Il problema non dovrebbe esserci. Ma è una questione di fede. Io non ci credo, non ritengo che questa della separazione delle carriere sia scelta utile per la magistratura e per il Paese”.

Nelle riforme del governo vi legge una deriva autoritaria?
“Se uno le mette insieme e le proietta nel tempo e vede quello che il governo sta facendo, a partire dalle manganellate agli studenti, il sospetto può anche venire. Ma se è così, va contrastato con una ferma vigilanza democratica”.