Se abbiamo ormai tanta confidenza, in queste ore di apprensione sanitaria nazionale, con termini come epi-demia, pan-demia, è perché il demos, il popolo, è protagonista di un improvviso quanto pernicioso avvicinamento al tema della morte e della sopravvivenza. E se ci poniamo legittime perplessità su una tremenda scia di decreti, ordinanze e provvedimenti, altamente coercitivi e fobogeni fino all’inverosimile, che restringono la nostra mobilità sacrificandola sull’altare di una morbilità difficilmente gestibile, è perché l’autonomia decisionale di ciascuno, il godimento pieno di diritti acquisiti e di secolare memoria, fanno a zuffa con la ratio generale, la sicurezza di tutti, l’ordine pubblico e la salute come bene da proteggere.
E allora conviene leggere Democrazia (Liberetà, pagg. 117, euro 10), una interessantissima silloge di otto interviste a cura di Antonio Fico a studiosi, storici, filosofi di chiara eccellenza italiana, che fa proprio il punto, da varie angolazioni, su cosa significa oggi essere cittadini, rispettare la legge, riconoscersi come parte di un patto sociale. Scopriamo con Luciano Canfora (nella foto) che democrazia è “parola di combattimento” perché sin dall’epoca della polis greca l’elemento libertà entra in dialettica con l’elemento comunità, indipendenza di giudizio e di azione con legame di censo e di casta, capitale e lavoro diremmo col vocabolario che ha assunto il governo dei Molti via via che ha inglobato le tesi liberali dall’800 ai giorni nostri. Sono le classi più agiate – e non donne o schiavi – che nel mondo ellenico maturano il privilegio del voto, poi allargatosi dai maschi-guerrieri ai marinai che garantiscono le flotte in tempi bellicosi, per non tacere, inoltre, che kratos non è solo l’auctoritas dei saggi benpensanti ma anche dominio e violenza.
C’è, dunque, qualcosa che insidia ab origine la semplice e intoccabile partecipazione delle masse al potere: individualismo e collettivismo, profitto e uguaglianza, espressione insindacabile del sé e subordinazione/soggezione ad una common mind che ha i suoi parametri e i suoi obblighi statutari, sono da sempre linfa e curaro della democrazia. Fino al crinale postmoderno splendidamente delineato nell’intervento di Marco Revelli (e di Michele Mezza sul finire del testo) che evidenzia come il rapporto col popolo oggi sia diventato populismo, dopo la crisi delle grandi narrazioni politiche, ideologiche, sindacali e partitiche esistite in pratica fino al craxismo e al berlusconismo; e come siamo tristemente di fronte a una “democrazia del pubblico”, non nel senso di prevalenza di virtù di coesione e solidarietà, ma di un incombente palcoscenico, emozionale e mediatico, che ci ha resi “narcisisti e impotenti”, in pratica marionette da urna e da zapping.