Finché c’è guerra c’è speranza. E, soprattutto, soldi. Tanti soldi. Perché pure se rispetto al 2014 assistiamo a una contrazione, il mercato italiano di export di armi e munizioni, comuni e militari, ha registrato un guadagno di ben 1, 25 miliardi di euro. Per la precisione: 1.255.131.904 euro. Il dato, come detto, rappresenta un decremento del 3,5% rispetto al 2014, anche se si tratta – a valori costanti – del terzo maggior volume per l’export del settore negli ultimi vent’anni, di poco inferiore al massimo storico di quasi 1,4 miliardi di euro registrato del 2012. Insomma, con le armi si continua a guadagnare anche nel 2015. È questo il quadro che emerge dal “Rapporto sulle esportazioni di armi e munizioni” redatto dall’Opal, l’Osservatorio permanente sulle armi leggere. Il rapporto, peraltro, dedica un approfondimento alla provincia lombarda di Brescia, da sempre il più importante centro armiero italiano: nel 2015, le sole industrie della Val Trompia (a cominciare dalla Beretta) hanno commerciato armi per 298 milioni (anche in questo, in forte decremento – 13,8% – rispetto al 2014).
Peraltro la cifra sarebbe ancora più alta di quanto già non lo sia. Già, perché, come sottolineano dall’Opal, i numeri fanno riferimento alle armi di uso militare e comune, ma non a tutti i sistemi militari (che vanno dunque aldilà dell’arma vera e propria): per quanto riguarda l’autorizzazione alla vendita di tali sistemi bisogna aspettare ancora dato che, per quanto riguarda il 2015, occorre attendere la pubblicazione della Relazione interministeriale che è stata inviata dal Governo alle Camere lo scorso 31 marzo ma che ad oggi non è stata ancora resa pubblica.
CHI SPARA CON ARMI MADE IN ITALY – A questo punto, però, passiamo ai dati. Quali sono le aree che sparano con armi made in Italy? Innanzitutto l’Europa: primeggiano infatti i colleghi dell’Ue (473 milioni di euro), seguiti dai Paesi dell’America settentrionale (311 milioni di euro, la maggior parte per “armi comuni”). In ripresa, poi, le esportazioni, quasi tutte per armi e munizioni di tipo militare, verso l’Asia che nel 2015 superano i 184 milioni di euro. Scendono anche le esportazioni verso il Medio Oriente (dagli oltre 157 milioni di euro del 2014 a quasi 101 milioni di euro del 2015). Ma arriviamo, a questo punto, al dato più eclatante: l’export verso i paesi dell’Africa settentrionale, infatti, è aumentato, tanto da raggiungere nel 2015 la cifra record ventennale di quasi 52 milioni di euro.
ARMI ITALIANE E L’EGITTO DI AL-SISI – E tra i tanti Paesi africani a primeggiare è proprio l’Egitto di al-Sisi, a capo di un regime su cui si addensano tante (troppe) ombre sulla morte di Giulio Regeni. Dai dati emerge, infatti, che nel 2014 sono state esportate in Egitto più di 30mila pistole prodotte da un’azienda della provincia di Brescia per un valore di quasi 8 milioni di euro e nel 2015 sono stati inviati, in gran parte da un’azienda della provincia di Urbino, 3.661 fucili o carabine per un valore di oltre 3,8 milioni di euro. Per carità: è giusto ricordare che le esportazioni in Egitto segnano un forte calo, passando dagli oltre 25 milioni del 2014 a poco più di 7 milioni di euro nel 2015. Ma va notato, si legge nel dossier, che “un’ampia parte riguarda forniture alle forze di polizia e corpi di sicurezza del regime di Al Sisi”. Tutto questo nonostante sia tuttora in vigore la decisione del Consiglio dell’Unione europea – assunta nell’agosto del 2013 e riconfermata nel febbraio del 2014 – di sospendere le licenze di esportazione all’Egitto “di ogni tipo di materiale che possa essere utilizzato per la repressione interna”.
PECUNIA NON OLET – Ma non finisce qui. Tra i tanti acquirenti, infatti, non sono pochi i Paesi che sono impegnati in guerre anche profondamente sanguinose e che hanno già ricevuto pesanti condanne da parte degli organi internazionali. “Si può notare – si legge ancora nel dossier dell’Opal – che nel 2015 quasi un terzo delle armi e munizioni esportate dall’Italia sono state destinate in zone in cui erano in corso conflitti armati (Medio oriente e Asia) o che sono caratterizzate da forti tensioni interne o regionali (Africa settentrionale e alcuni paesi dell’Europa orientale)”. Basti guardare il grafico di seguito:
C’è, ad esempio, l’Arabia Saudita, che compra bombe dalla Sardegna (nel 2015 oltre 19,5 milioni di euro di ordigni per le Forze armate saudite) che poi utilizza in Yemen – come La Notizia ha già raccontato – in un conflitto che ha causato quasi settemila morti di cui più della metà tra la popolazione civile. E, ancora, munizioni militari anche per altri Paesi in stato di conflitto armato o guidati da regimi dittatoriali: dal Turkmenistan (87 milioni di euro) agli Emirati Arabi Uniti (41 milioni), dall’Algeria (41 milioni) fino all’India (24 milioni).
I DATI SU SCALA MONDIALE – E come se non bastasse sono arrivati, solo due giorni fa, anche gli ultimi dati su scala mondiale, pubblicati dall’Istituto SIPRI di Stoccolma. Come riporta anche Rete per il Disarmo, dopo tre anni di relativa stasi la crescita misurata nel 2015 si attesta circa sull’1% in termini reali. L’ammontare complessivo delle spese militari è stimato dai ricercatori svedesi in 1.676 miliardi di dollari, equivalenti al 2,3% del prodotto interno lordo mondiale. Nel complesso i primi 15 Paesi di questa speciale classifica spendono per gli eserciti e le armi almeno 1.350 miliardi di dollari, equivalenti all’81% del totale. In testa alla classifica come sempre gli Stati Uniti che da soli investono poco meno di 600 miliardi di dollari e contribuiscono al 36% della spesa militare complessiva. Dietro di loro la Cina, che ha visto una crescita annuale del 7,4% (complessivi 215 miliardi di dollari) e poi, superando anche la Russia, l’Arabia Saudita che ha fatto crescere la propria spesa militare del 5,7% (ad oltre 87 miliardi di dollari). Pur superata dal budget saudita, la Russia ha comunque incrementato la propria spesa militare del 7,5% (oltre 66 miliardi di dollari totali). E l’Italia? Secondo gli ultimi dati, il nostro Paese investe in armi 24 miliardi di dollari, che pone l’Italia al dodicesimo posto a livello mondiale (per una quota pari al’1,4% del totale).
Tw: @CarmineGazzanni