di James Hansen
È in corso una guerra che contrappone parte dell’Occidente – Russia compresa ad ora – a un’importante minoranza del mondo islamico. Paradossalmente, come pubblico, sappiamo di più della conduzione del conflitto dalla parte nemica che dalla “nostra”. Per i governi occidentali si tratta perlopiù di una guerra segreta. Isis invece conduce una guerra ostentatamente pubblica. Le sue azioni sono volutamente spettacolari, anche quando il danno militare è molto modesto. Sopra ogni altra cosa, l’organizzazione pare volere semplicemente attirare l’attenzione.
Malgrado ciò, non conosciamo i loro obiettivi. Le loro “richieste” sono un mistero, almeno per l’opinione pubblica occidentale. Se l’obiettivo fosse quello di essere “lasciati stare” nel territorio che controllano, hanno scelto una strategia davvero eccentrica per ottenerlo. L’attuale intervento russo in Siria, ad esempio, è stato finora più pericoloso per i nemici “locali” dell’Isis che per l’organizzazione stessa. Ha senso abbattere un aereo di linea per obbligare Putin a spostare la mira? La caratteristica che unisce le sue azioni d’impatto internazionale è che con ogni uccisione – con metodi visibilmente scelti per stuzzicare i media – l’Isis “manda un messaggio”, o almeno crede di farlo. Cosa allora tenta di comunicare con un attacco facile a obiettivi non protetti come una sala da ballo, uno stadio e dei ristoranti etnici? È chiaro che si tratta di un intervento sull’opinione pubblica, ma per ottenere cosa? Anziché imporre una maggiore “prudenza” alla Francia, obbliga il vertice del Paese a intervenire ancora più decisamente contro di loro. È però ottimale per ottenere ampi spazi sui media.
Non abbiamo un buon modello per concepire il comportamento dello Stato Islamico. Molta della mentalità che le sue azioni esprimono è in un certo senso “romantica”. Il farsi “Califfato” e le sue punizioni esemplari – decapitazioni, prigionieri arsi vivi in una gabbia, stupri di vergini e così via – devono molto più alla peggiore pulp fiction occidentale che al Corano. L’Isis si comporta nei fatti come un’allarmante banda giovanile di Los Angeles e non come un movimento in qualche modo “politico”. Parrebbe formato più da una cultura d’accatto televisiva che da un’ideologia o una teologia. C’è qualcosa di infantile in tutto ciò che fa, nella vanità e perfino nei suoi combattenti votati al suicidio. C’è niente di più tragicamente romantico che uccidersi per un ideale?
Il mese scorso un portavoce del Pentagono ha illustrato alla stampa i successi ottenuti nella guerra dei droni contro l’organizzazione: “I nostri attacchi hanno ucciso all’incirca settanta capi di livello alto e medio-alto a partire dai primi di maggio. Ciò equivale a un ucciso ogni due giorni”. Non ci sono molti esempi dei risultati di una precisa e duratura strategia volta a togliere di mezzo la leadership adulta – presumibilmente più posata – di un’entità potente e aggressiva. Viene in mente solo la (marginalmente più civile) “Rivoluzione culturale” di Mao. Non è finita bene. Isis per molti versi si comporta come se fosse guidato da teenager violenti in piena crisi d’identità. Armi pesanti a parte, è una circostanza che molti genitori riconosceranno. È una saggia strategia la sistematica rimozione di ogni leader maturo? Con chi dobbiamo trattare l’eventuale pace?