Assange torna in libertà, ma c’è poco da festeggiare

I 12 anni di inferno di Assange sono un avviso per tutti i giornalisti. Un'ingiustizia perpetrata nel silenzio di buona parte della stampa

Assange torna in libertà, ma c’è poco da festeggiare

Reo-confesso di uno dei 18 capi di imputazione contestatigli. Pena: 5 anni, già scontata. Diciamolo subito, così tutti quelli che per anni hanno dichiarato Julian Assange colpevole di qualunque nefandezza – dall’essere una spia russa, allo stupro di bipedi e quadrupedi – si metteranno l’animo in pace. E potranno dire che il tempo ha dato loro ragione.

Anche se la verità è che due giorni fa è stata finalmente messa la parola fine a una vicenda che avrebbe dovuto mobilitare l’opinione pubblica mondiale (o “neanche iniziare”, come ha detto il portavoce di Amnesty International, Riccardo Noury).

A partire da politici e giornalisti o, almeno, da quanti si dicono tutori della libertà di stampa. Sì, perché, alla fine, la vicenda Assange si riduce a questo: il diritto/dovere di divulgare informazioni che il potere – in questo caso (e come spesso accade) il governo degli Stati Uniti – non voleva fossero divulgate.

Il perché è semplice (lo rammentiamo per i più smemorati): nel 2010 Assange ha pubblicato 70.000 file segreti sottratti al governo di Washingtown relativi a operazioni militari della coalizione in Afghanistan; poi ne ha rivelati altri 400.000 sull’invasione dell’Iraq sottratti al Pentagono; e infine ha diffuso 250.000 cablo diplomatici americani (contenenti anche rivelazioni imbarazzanti sullo spionaggio di Paesi e leader alleati).

Un esempio: il video dell’assassinio a sangue freddo di alcuni civili, tra i quali due giornalisti della Reuters, uccisi da un elicottero statunitense in Iraq nel luglio 2007. Un crimine di guerra che nessuno avrebbe mai né visto né conosciuto, senza WikiLeaks…

Un inferno lungo 12 anni per la libertà di stampa

Questa la colpa per la quale Assange ha passato sette anni recluso in un mini-appartamento nell’ambasciata dell’Ecuador nel Regno Unito e altri cinque in una cella nel carcere di massima sicurezza di Belmarsh, perché accusato di aver violato gli arresti domiciliari, ordinati anni prima per un’accusa mossa dal governo svedese che nel frattempo era decaduta, perché falsa…
Un’odissea personale in nome della libertà d’informazione che terminerà oggi col suo ritorno in Australia. Un accanimento funzionale a lanciare un messaggio: chi seguirà il suo esempio, vivrà l’inferno.

Tutti l’hanno sfruttato. Pochissimi gli sono rimasti accanto

Da quella miniera d’oro di scoop che è stata WikiLeaks hanno attinto a piene mani tutti i principali giornali mondiali, a partire da quelli italiani, che hanno vissuto di rendita per anni, salvo poi “dimenticarsi” di Assange quando l’Amico Americano ha fatto la voce grossa. Tutti spariti quando c’era da prendere posizione a difesa della libertà di stampa (con l’eccezione di alcune voci isolate e della trasmissione “Presadiretta” di Riccardo Iacona, che ha portato il caso in prima serata sulla Rai).

A testimonianza della mancanza di coraggio dei media italiani anche il fatto che, quando nel 2022 la Corte Suprema inglese aveva negato ogni ulteriore ricorso e aveva dato il via libera all’ordine esecutivo di estradizione di Assange, cinque grandi giornali mondiali che avevano collaborato con WikiLeaks avevano lanciato un appello all’amministrazione Biden per far cadere le imputazioni: New York Times (Usa), Guardian (GB), El Pais (Spagna), Le Monde (Francia) e Der Spiegel (Germania). E l’Italia? Chi era stato il partner italiano di WikiLeaks? Nessuno, evidentemente…

“Ah ma Navalny è diverso da Assange…”, dicono

Che poi sono gli stessi giornalisti e politici italiani che hanno fatto carte false per  differenziare le vicende di Assange e Aleksei Navalny, con il primo dipinto come un agente prezzolato dal Cremlino da condannare (meglio se a tutti i 175 anni di carcere che rischiava), il secondo come un martire immacolato ucciso dal sanguinario Vladimir Putin.

“I due sistemi legali non sono neanche paragonabili”, dicevano, “In Russia un detenuto rischia di morire, negli Usa no, ci sono tutte le garanzia”, sostenenvano altri, dimenticando i tentativi della Cia di uccidere Assange mentre era su territorio equadoregno, o le torture fisiche e psicologiche subite da Chelsea Manning nei vari carceri dell’esercito Usa.

Per salvare Assange, ci voleva il ritorno di Donald Trump

La politica aveva inguaiato Assange e la politica l’ha liberato: grazie al patteggiamento il sempre meno lucido Joe Biden si è scaricato di un caso imbarazzante di fronte ad ampi settori dell’opinione pubblica internazionale. Spera così di recuperare consensi nella sfida presidenziale con Donald Trump. In pratica, per liberare Assange doveva tornare The Donald, il presidente meno democratico della storia Usa. A pensarci bene l’ultimo grande e triste paradosso di questa vicenda…